Salve a voi, che ascoltate da lì. Come mi chiamo non è molto importante, almeno non allo scopo di capir meglio la storia che sto per raccontarvi; sono seppellito quassù, sulla collina, assieme a pochi altri, da pochi decenni. Abbastanza, comunque, da fare in modo che il nome sulla mia pietra sia stato masticato da licheni ed intemperie, ed una piantina di euforbia mi nasconda alla vista.
C’è una bella vista, da quassù. L’aria di Settembre è fresca, e i profumi della valle risalgono con la brezza fino al paese, e poi fino a noi, spiegandoci fiori, campi tagliati e pane appena sfornato. L’alba arriva qualche ora dopo quella ufficiale, con i raggi del sole che rotolano giù fra gli alberi quando tutti sono ormai già in piedi e attivi; scaldano un po’ anche noi, regalando tepore alle vecchie ossa nascoste sotto terra. Finché non arriva l’inverno, s’intende: quassù fa davvero freddo, tanto che le parole mi mancano per definirlo bene.
La storia che vi narro però non tratta di noi, ossicini che riposano; è una storia di uomini vivi, che lavorano, amano, mangiano, che fanno insomma le cose normali che fa la gente viva. Non nego che da quando sono sotto terra non abbia sentito storie interessanti, intendiamoci: in un cimitero, anche se piccolino, c’è sempre un brulicare di racconti pronti a stupire, se si ha l’accortezza di saper ascoltare le voci giuste. Come il signor Giovanni, che aveva venduto la tabaccheria per raggiungere la sua amata in Grecia, o Augusto detto Traversina, che fermò un convoglio prima del ponte caduto grazie ad un sogno fatto la notte prima; o ancora Ermanno Stracquadani e le sue tre figlie che andarono in sposa allo stesso uomo, e solo lui se ne accorse anni dopo. Ci sarebbe da scriverci un libro.
Ma, come vi accennavo, la storia che vi racconto non tratta di loro. O meglio, non può: siamo una specie ormai estinta, in questa valle. E dire estinto per il regno dei più è certamente ironico, ma è esattamente così. E se mi seguite, avrò il piacere di rendervi tutto più chiaro.
Se scendiamo dalla collina, lasciamo i cipressi al fianco del viale e superiamo il muro rabberciato che si tiene su grazie alle piante rampicanti, siamo su di una piccola strada ciottolata che segue il profilo della collina, gira attorno ad essa in ampie volute e si avvolge in tornanti lievi, mentre scende verso il paese. Lo si vede tutto e lo si abbraccia, lungo tutto il percorso; forse ci hanno messo qua, cosicché potessimo sempre controllare i nostri cari, dall’altura. La strada diventa in cemento prima, e asfalto poi; compaiono le prime case, coi tetti spioventi e rivestite in pietra, assediate dagli alberi del bosco che vogliono riprendersi gli spazi rubati, e stretti sentieri che partono dalla strada principale che s’infilano dritti nelle autorimesse, o piccoli campi molto scoscesi dove rigogliosi filari di verdure estive stanno regalando gli ultimi frutti. Il campanile all’improvviso ci guarda da dietro una quercia, e in men che non si dica siamo sulla via principale: poco lunga, colorata da insegne di negozi di alimentari e abbigliamento, ancora impavesata per la recente festa del patrono, ingiallita dalle foglie che cominciano a cadere dagli alberi. Siamo a Roccafratta: poco meno di duemila anime, viventi s’intende, a metà costa dell’appenino tosco-emiliano; un posto tranquillo per viverci, riposante dopo la morte, in generale riassumibile in una parola: noioso.
Almeno è quello che pensano i roccafrattesi più giovani, attirati dalle luci più intense, insegne più colorate e torri più alte del vicino capoluogo; ma vi assicuro che non è un cattivo posto per trascorrere il passar del tempo, scandito ancora adesso dalla natura e dal suo ciclo di castagne, funghi, pascoli e mietitura.
Un’insegna in particolare ci interessa, e qui ci fermiamo. Blu con le scritte bianche svolazzanti, appesa ad una corta asticella in metallo, ci avvisa che siamo davanti all’agenzia funebre del luogo. Si, siam sempre a trattare della dipartita da questo mondo, in un modo o nell’altro; ma parliamo di vivi, ricordatevelo. In particolare, della persona che adesso si sta avvicinando alla serranda abbassata, che fruga nelle tasche della giacca leggera per trovare un mazzo di chiavi rovistando fra le sigarette e le monetine, che lo estrae scegliendo al contempo la chiave più consumata delle varie a disposizione e che, dopo aver girato le serrature, solleva con sforzo sferragliando nel fresco del mattino. L’insegna recita “Morani e Peretti – La Pace nel Mondo”, ed è appunto il signor Nicola Morani che troviamo davanti. Mette lo zerbino, conservato dietro la serranda, di fronte all’entrata; apre la porta di alluminio e vetro, ed entra nel locale. Il consueto lezzo di fiori passati soffia fuori, mentre con mugugni e borbottii estrae i mazzi dal frigo e li dispone nei vasi in plastica all’esterno, ad ogni vaso un borbottìo, ogni mazzo un’imprecazione sommessa. La maggior parte sono indirizzate al suo socio, che ancora non si vede; le restanti sono generiche, pronte all’uso quando se ne presenti l’occasione. Per ultima, estrae una lavagna con il bordo in legno, montata su un cavalletto, e la espone a fianco al piccolo esercito di vasi fioriti, soldatini pronti all’attacco dell’aldilà; prende un gessetto dalla grondaia sul davanti, pensa un po’, attendendo l’ispirazione giusta, poi scrive:
“3×2! Una bara in omaggio ogni”
Si ferma, riguarda, con il taglio della mano cancella.
“Grande offerta! Sconti su tutti i modelli, solo per”
Ricancella, rimugina, riscrive.
“Pensaci prima! Non sai quando potrebbe accadere”
Gli piace un po’ di più, riappoggia il gessetto, fruga per una sigaretta e la accende. Il dottore gli ha detto che la sua tosse non migliora con quelle, per tutta risposta ha avuto in offerta uno sconto per la bara. Dopotutto ha trentasette anni, è ancora in salute, riuscirebbe a fermare un toro a mani nude o almeno gli piace crederlo. Si siede sul gradino ed aspetta. C’è tempo, è una bella giornata, va bene anche così ma potrebbe andar meglio. Tipo, potrebbe morire qualcuno. Da quanto?
Fa due passi al bar poco più avanti per far colazione e discutere delle ultime novità in paese, dopo aver messo un post-it sul vetro – anche se sa che nessuno chiederà i suoi servigi nel frattempo, e il suo socio ha le chiavi.
“Ciao Nicò, come va?”
Il posto è lo stesso di quando c’ero anche io, come corpo s’intende. Lungo bancone con torte sotto campane di vetro, astronave del caffè piena di tubi cromati e sibili sospetti, soffitto con neon obituarici e piccoli tavolini in formica rosa con seggioline celesti: quasi ti aspetti di sentire diatribe riempire l’aria su chi sia più forte fra Pulici e Bettega, sui mandanti dell’omicidio di Occorsio o se i desaparecidos sarebbero tornati. Il saluto arriva da Arturo, dietro il bancone, per primo. Cordiale, simpatico, con una barba rossa come le sue opinioni politiche; dice che son comunisti da generazioni, che suo padre lo era come suo nonno, e son certo che se nonno Oreste lo sentisse adesso gli addrizzerebbe la schiena a suon di nerbate, che ancora adesso su al camposanto ci allieta con “Giovinezza”.
Arturo con una mano stringe il filtro della macchinetta del caffè e con l’altra si dà una vigorosa grattata alle parti basse: sarà anche un amico, ma un beccamorto resta comunque un beccamorto.
“Bene, e voi? Oggi è una giornata fresca, arriva l’autunno.”
Saluti e strofinamenti anche dagli altri quattro avventori. Nicola prende il giornale mentre gli preparano un piattino con cappuccino, agguanta un panino, burro e marmellata e si siede ad un tavolo di lato, con vista sulla strada. Notizie del giorno, politica, cronaca, locale: incidente sulla statale, due feriti. Necrologi, nessuno in città. Sport, meteo, cinema. Sbadiglia sommessamente, mentre con calma taglia il panino, lo intonaca di burro e lo frattazza di marmellata alla, cosa c’è sul barattolo? More, questa gli piace. Da lontano vede il suo socio in bicicletta.
“Arturo, arriva.”
“Preparo anche per lui.”
Ferruccio Peretti scampanella dalla via, scende al volo e appoggia la legnano, bici storica del nonno rimessa a nuovo l’anno prima, al muro del caseggiato. Entra con entusiasmo, guarda le persone presenti e, dopo averle passate a rassegna, saluta tutti.
“Buondì! Offro un giro a tutti, oggi è il mio onomastico!”
Auguri da tutti, mentre nuovi strofinamenti accolgono il suo arrivo. Prende dal banco bombolone e cappuccio, e si siede al tavolo con il compare.
“Novità?”
“Nulla di rilevante” parla a voce bassa Nicola, “Sembra che nulla si smuova.”
“Buon Dio, ma dovrà durare ancora per molto? Io ho una notizia, speriamo che sia vera, ci darebbe un po’ di aria.”
“Uhmf” è il suono che esce all’altro mentre addenta il panino.
“E’ morto il figlio maggiore di Mantovani, stava in Germania, sembra in una rapina. Scende giù questo fine settimana. Finalmente lavoro.”
“No, lo portano nella cappella degli zii a Cesenatico. Niente da fare.”
“Ma porca… sono quattordici mesi che siamo senza uno straccio di lavoro. Un anno e due mesi! Prego lunga vita a tutti, ma qui non muore più nessuno. Siamo al verde, stiamo scavando il fondo del barile, è impossibile. Il mutuo il mese prossimo lo pago come, donando un rene? E questo panino è di avantieri.”
“Si, ed è vivo anche lui.”

(continua in questo post)
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