Il ciclo di Krebs della biancheria in casa parte da un assioma: deve esserci sempre qualcosa da lavare.
Altrimenti non mi so proprio spiegare perché, fra tutti i mondi possibili, il mio è quello dove non riesco mai a conservare ogni cosa in un posto univoco.

In principio ci si lava. A parte qualche raro caso umano che reputa il pingo corporeo come una preziosa fonte di coibentazione, la società civile ci richiede un certo grado di igiene; e questo lo si raggiunge con una o più abluzioni giornaliere, generali o localizzate, seguite da sostituzione degli involucri in tessuto atti a nascondere le nostre più o meno imbarazzanti forme.

Tali involucri vengono indi posti a lavare. Tralasciamo le penose argomentazioni femministe con le quali si cerca di dimostrare che il maschio umano creda che fra il cesto della biancheria sporca e quello della biancheria pulita vi sia un procedimento misterioso che presuppone folletti, marmotte e la nonna dell’ACE, ok? Sappiamo tutti che sono i procioni, e chiudiamo il discorso.

Dicevo: alla biancheria pulita. Tutti vogliono far parte della biancheria pulita. Soprattutto i capi sporchi. Quindi, appena vedono un mucchio di biancheria pulita, ZAP! ci si fiondano dentro. Ovviamente, prendendo la media della lordura, è sicuramente un mucchio di roba pulita, perché l’1% di calzini sporchi fa comunque il 99% di biancheria lavata.

Ma vaglielo a far capire, calzinidimmerda.

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