(Qui la prima parte, qui la seconda e qui la terza))
Il resto della giornata è passato tranquillo, si sa che le migliori cose succedono solo al mattino. Ferruccio ha ascoltato il folle piano di Nicola, hanno discusso per un’ora buona nel fresco e olezzante ufficio, e hanno rimandato il tutto alla notte. I clienti normali son passati e andati, Giuliano è tornato verso l’ora di pranzo, il figlio di Nicola ha finito la scuola, insomma: la vita va come deve andare.
E’ soltanto a sera che sembrano ricordarsi di quello che devono fare; l’uno dice che deve andare a trovare l’altro per decidere di una cosa importante, salutano a casa e s’incamminano con un atteggiamento che vorrebbe sembrare tranquillo fuori dalle rispettive case. Entrambi raccolgono una busta di plastica con vestiti di ricambio lasciata dietro vasi o cespugli poco distante, l’atteggiamento da congiurati che si guardano le spalle è sempre più evidente.
Per poco non si provocano un infarto vicendevole quando si incontrano dietro la chiesa, nel capanno della vecchia ferramenta. Ah, gente abituata alla segretezza, nervi d’acciaio temprati da anni di mansioni al limite.
Rimangono a guardarsi per almeno una dozzina di minuti, il pompare del cuore unico rumore più forte di tutti che riescano a sentire, il respiro affannoso nella notte si sente a distanza. Se non sapessi cosa succede, potrebbe ricordarmi di quando con la morosa mi appartavo dietro il mulino.
“Nico…”
“Si?”
“La tua idea già comincia a starmi qui” dice battendosi la mano all’altezza dello stomaco.
“Sei tu che sei arrivato all’improvviso”.
“Dovevo avvisarti, vero? Magari uno squillo al telefono. Io già mi sono mezzo preso un colpo stamattina, un altro così e ci resto definitivamente”.
Si osservano le rispettive gocce di sudore scendere dalla fronte.
“Cambiamoci. E’ meglio”.
Gli abiti che si son portati sono neri. Pantaloni neri, felpa nera, scarpe nere, calze da donna nere in mancanza di passamontagna. Quelle, dopo che le hanno infilate, con un paio di forbici si fanno i buchi per gli occhi e la bocca.
“Dodici euro vengono queste, spero che serva davvero”.
“Da quando ti intendi di abbigliamento femminile?”
“Da quando Giada prende solo quelle di marca che dice che quelle cinesi le fanno venire l’irritazione”.
“Piano con quelle forbici, per poco mi porti via il sopracciglio”, zac zic, “ora ci vedo. Passa qua. E Giada che ne dice di questa operazione, per l’appunto?”
“Non ne sa niente. Ufficialmente uscivo con te per decidere di una cosa per il lavoro. Lo abbiamo fatto altre volte, non è così strano. Ecco, l’ho messa, piano. Quello è il naso, ehi! Attento!”
“Non fare la fighetta, un trinco sulla faccia ti farà sembrare davvero un duro. Io ho detto a Fabio che avevo documenti da sistemare in ufficio. Adesso sei davvero un figo, guarda che faccia da NAS”.
“E tu faccia da… dai, muoviamoci. Il cancello qua vicino è sempre aperto. Ricapitoliamo: primo, non si parla”.
“Secondo, si sale, e spostiamo le tavole”.
“Terzo, scendiamo, ed aspettiamo domani mattina. Passami l’olio”.
Ferruccio gli passa la bomboletta di sbloccante, e Nicola innaffia abbondantemente i cardini secchi del cancello, il silenzio è d’oro.
“Sei sempre sicuro?”
“Se è come penso, nessuno si farà nulla. Sennò…”
“Sennò ci mettono dentro e buttano via la chiave”.
“Ferrù, qua la seiduesei credono sia una motocicletta. Li ho visti, dai. Hanno un regolamentare cappello di carta e birroncino di sicurezza. Se va male avremo di nuovo lavoro”.
“Ma avremo ammazzato…”
“Lo so. E’ mesi che ci penso. Ma a parte prendere la rivoltella di nonno e farmi serialkiller non ho avuto idee più veloci. Se non vuoi comunque torna a casa, qua faccio io”.
“No, e che vuoi: siamo solo tu ed io, in questa situazione. Ci serve da fare o ce ne dobbiamo andare e, onestamente, non ne ho voglia”.
“Allora andiamo. La torcia solo in caso estremo. Questo coso non fa più rumori, unduetre via!”
Faccio due passi e li osservo mentre si avviano pesantemente verso il muro esterno della chiesa. Una manciata di animaletti fruscia e scricchiola attorno a loro, gatto pestato incluso; come agenti segreti hanno saltato qualche corso serale. Diplomati in zerozerosette alla Elettra, bontà loro. Aggirano l’abside, procedono piano lungo il muro fermandosi di tanto in tanto per un rumore strano, ma nulla di che.
Arrivano ai piedi delle impalcature che sono un fascio di nervi intriso nel sudore. Non riesco più a distinguerli, macchie nere nel buio… e si, anche da defunti la vista non migliora mica. Si scambiano gesti in codice: ma evidentemente il codice non l’hanno studiato benissimo, infatti si sente chiaramente, anche se bisbigliato, un “Passami il taglierino”. Stanno facendosi un’entrata nella rete di protezione. Uno dopo l’altro, entrano nel castello di ferro e legno.
Sant’Anastasio ha sempre fatto un vanto del suo campanile. Orgogliosi campanari hanno ravvivato la vallata, segnato funerali, festeggiato matrimoni e avvisato le genti di rifugiarsi durante i bombardamenti della grande guerra. Le sue campane, fatte da Marinelli, erano l’orgoglio della curia. Avevano installato addirittura un sistema automatizzato di controllo delle campane, comandato a distanza, prima che succedesse il fattaccio.
Don Everardo si dimenticò la stufa accesa in canonica una sera, ed uscì per una estrema unzione. Forse un malfunzionamento, o una corrente d’aria sbirula, fatto sta che la fiammella si spense e il gas lento lento riempì gli spazi, trovò due porte aperte, riempì la base del campanile.
Alle otto in punto, l’impianto automatico si attivò per suonare il vespro. Il secondo rintocco fu giusto poco poco più forte del precedente, incendiando con una minuscola scintilla il propano che pigro stagnava in basso, facendo esplodere i vetri della chiesa e sparando una cassapanca da qualche centinaio di chili su per il campanile fino alla Santa Maria, la campana del LA centrale, la più grossa da trecentoventi chili, che si staccò e cadde su tutti i gradini in legno, fracassandoli e rendendo inutilizzabile la salita. Oltretutto, una grossa crepa filò la struttura sino alla finestra di ponente.
Qualcuno giura di aver visto le finestre del campanile illuminarsi al terzo rintocco, aver sentito un boato e novantatrè rintocchi uno di seguito all’altro, molto vicini.
Tutto questo mi è stato riferito da Don Valente, cappellano storico della chiesa defunto ottanta e passa anni fa. Informazioni di prima mano.
I nostri due sono ormai a buona altezza, poco manca alla cima. Si fermano e cominciano ad attuare il piano poco virtuoso: qualche trambusto, rumore di ferro e tavole, alla faccia della segretezza si sentono anche voci. Grosso trambusto. Voci alte.
Uno spezzarsi di legno, che cozza contro i tubolari di metallo, e un urlo di paura e disperazione. Qualcuno, forse Nicola, è incappato nel suo stesso tranello: una tavola ha ceduto sotto di lui, precipitando giù nell’impalcatura, e lui s’è trovato sbilanciato fino a sfondare la rete fine fine che avvolge come una zanzariera il traliccio di metallo, ed ora penzola appeso con le braccia ad un’esile traversa diagonale, i piedi che mulinano nel vuoto.
“Tirami su! Dai, tirami su!”
“Arrivo, ci sto provando, resisti!”
“Mi stanno cedendo le mani…aiuto!”
“Eccomi, afferra la mia mano”
“Scivolo…sudato…asciuga…”
“Ci sto provando, tieni duro…”
Tranquillo, Nicola, non si sta male defunti.
“Aiutoaiutoaiuto… non lasciarmi cadere ti prego…”
“Cazzo scivoli cazzo, stringi questa mano forza!”
“Scivola non riesco cazzo aiuto non mi tengo”
“Si sta staccando dal muro tutto! Tirati su! Cedono i fischer!”
“Non tengo aiuto aiuto aaaaaaaaaaaaaaaa!”
“Nico! Nicooooo”
Tumf. Il rumore che farebbe un cavolo sbattuto con forza sul pavimento. Cavolo cappuccio, s’intende. Mi avvicino piano, Guardo Nicola che s’è adeguatamente steso a terra. La gamba ad un’angolazione poco giusta, gli occhi a mezz’asta ed un rivolo di sangue gli esce dal lato della bocca, forse anche dall’orecchio. La felpa è ugualmente bagnata e intrisa.
Ferruccio vola lungo l’intelaiatura attorno alla torre, e arriva in tempo brevissimo a terra. Il suo socio è ancora immobile dove è caduto. Lo scuote, prova a svegliarlo, la preoccupazione sale sul suo volto.
“Nicò, ma che cosa hai fatto? Avevo una strana impressione…dai sveglia… e svegliati! E adesso che faccio? Qua non ti posso lasciare… domattina ti trovano e siamo nella fogna… sei vivo? Si, il cuore c’é… ma tutto questo sangue non te lo posso rimettere dentro… e adesso? Devo portarti via, ma cristiddio quanto pesi, come faccio? Mi serve qualcosa, una carriola, eccola, la prendo e adesso ti carico…Fabio è un dottore e ti aiuta lui, dai che ce la fai, non morire adesso! Acchiappa questo sacco addosso così non ti si vede. Forzaforza dai che andiamo uhhhhnnnggg. Pure la ruota sgonfia doveva avere. Via così.”
Nicola è in piedi a fianco a me.
“E tu chi sei?”
“Non è importante, io sono morto, tu no”.
“Ehi no, aspetta un attimo. Io sono quello a terra, giusto?”
“Sì, amico mio. Ed il tuo socio ti sta caricando sulla carriola”.
“E perché non sento nulla? Non sono allora morto anche io?”
“No, come ti ho detto. Questa è solo un’allucinazione causata dalla botta che hai preso.”
“Ma io ti conosco?”
“Non credo proprio.” Mi giro lentamente dall’altra parte.
“Ma si, mi pare di averti visto da qualche parte…”
“Ora devo proprio andare…ma ci vediamo, eh! Saluta la signora”.
“No aspetta!”
Noiose, queste esperienze di pre-morte. A volte la galleria con la luce alla fine, a volte ti vedi da fuori, altre vedi il nonno che ti rimanda indietro. Solo che io, suo nonno, non sono.
“Uno tredici ventisei quarantadue quarantacinque e numero jolly trentasei”.
“Eeeeeeeeh?”
Mi infilo nel muro per sviare le indagini, faccio due passi di lato per togliermi di traiettoria e un passo indietro per riuscire dal muro. Di Nicola spunta il sedere fuori dalla parete, mezzo infilato dentro per cercarmi. Scherzi da defunto. Mi avvio verso l’apertura nel muro dove Ferruccio, alla guida di una carriola carica del suo socio, s’è avviato.
L’altro, al piccolo trotto, è quasi arrivato a casa sua. Si ferma sotto il portone, palazzetto quadrifamiliare dove solo lui e un’altra famigila abitano, e suona forsennatamente il campanello. Pochi secondi dopo, tira fuori il cellulare, fa un un umero e lascia squillare. Sta per abbattersi sulla porta, aprirla e tirare fuori il compagno dal letto, quando si apre una finestrella al primo piano.
“Chi…ah, sei tu. Perso le chiavi?”
“No, ho bisogno di te, del tuo aiuto. Mettiti le ciabatte e scendi”.
“Ma sono i documenti?”
“No, sbrigati e scendi che non posso gridare! Forza!”
“Forza che forza, sono le due e questo…” e lanciando maledizioni, sparisce dall’apertura per comparire poche decine di secondi dopo alla porta. Una rapida occhiata e vede le gambe che spuntano da sotto il telo di sacco, fa una somma mentale e capisce qualcosa, magari non giusta ma capisce. Cerca gli occhi del compagno con i suoi.
“L’hai ammazzato?”
“Ma che? Sei scemo?”
“Qualcosa gli è successo, io non vado con gente morta dentro la carriola”.
“Non è ancora morto, ora gli dai uno sguardo?”
“Quaggiù? Ti direi di portarlo in ambulatorio, ma che gli hai fatto? Ti ha detto qualcosa che ti ha fatto imbestialire?”
“Ma piantala, sono anni che lavoro con lui, secondo te? In ambulatorio non fa adesso”.
“E quindi?”
“Aiutami a portarlo di su”.
“Si ma cosa…”
“E’ caduto dal campanile! Ora te l’ho detto! Vuoi aiutarmi si o no?”
“Campanile? E che cosa…”
“Mi. Vuoi. Aiutare?”
“Sì, prendo la carriola davanti”.
“Ecco, vedi che quando ti applichi? Fai piano. Lento. Chiudo il portone, un attimo. Sali lentamente, abbassati”.
“Quanto pesa? Ma è di mattoni?”
“Giada è una donna fortunata. Siamo quasi arrivati”.
Assieme aprono la porta al primo piano e introducono la carriola all’interno, poi con delicatezza depositano il corpo di Nicola sul letto principale. Fabio va nell’altra stanza a prendere i suoi attrezzi, inforca lo stetoscopio e stringe il manicotto della pressione al braccio.
“Regolare, nessun rumore, fin qui tutto bene. Da quanto è caduto?”
“Eravamo sui dodici metri…”
“E che cosa ci facevate? Sesso estremo non credo…”
“No…”
“…Nicola prima ti manda qua gentilmente e poi mi avvisa che ci hai provato….”
“…sei troppo geloso”.
“Ma sul campanile alle due di notte me la devi spiegare”.
“E’ un po’ lungo”.
“Ti sembra che io abbia da fare? A parte salvare la vita ad un amico, s’intende”.
“Nessuno muore più in paese, lo sai vero?”
“Si, ma è opera mia, che sono un genio della medicina”.
“No, sul serio. Non mi limito agli uomini, anche gli animali, insetti, parassiti, tutto. Niente muore più”.
“Che stai dicendo?”
“Stamattina hanno investito un gatto davanti al negozio, e non s’è fatto nulla. Prima, un mio amico, Gualtiero, s’è impiccato…s’era impiccato da cinque giorni, e non è morto. I ciclisti. Una blatta. Sembra che nulla possa fermare la vita. E Nicola ne era convinto”.
“E non vedo che c’entri il campanile. La testa è a posto”.
“Voleva sabotare le impalcature nuove che hanno messo finalmente per i lavori di ristrutturazione, per avere domani un incidente e poter mettere in atto le sue teorie”.
“E invece è caduto lui”.
“Sì”.
“Spalla lussata. Ma è caduto dal terzo gradino, però”.
“Noo, te l’ho detto: eravamo quasi in cima, a una dozzina di metri!”
“Si ma questo si è solo storto la caviglia ed ha preso un colpo in testa! Dodici metri?”
“Dodici… ehi, mi vuoi dire che non ha davvero nulla?”
“E dalli… ha solo preso un bel colpo e s’è morso la lingua, ecco il tuo sangue; il resto è una fiaschetta di whiskey che gli s’è rotta in tasca, non senti che puzza di alcool? Tutto qui” guardando con espressione dubbiosa i due soci “quindi? Posso tornare a dormire? Lo mettiamo sul divano?”
“Sì…certo” balbetta ferruccio, perplesso e contento, ma soprattutto perplesso. Ricaricano il corpicione di Nicola sulla carriola e lo portano verso il salone, dove scaricano sul sofa. Ronfa tranquillo.
“Bè, io mi ritiro, domani mi spieghi bene. Notte, eh!”
“Io mando un messaggio a Giada e sto qua a controllare… a più tardi…”
Acchiappa il telefonino, apre il flip e “Nicola si è ubriacato e dorme sul mio divano, se si sveglia te lo mando dopo ciao Fe” spedisce. Non molto lontano dalla realtà. Sprofonda nella poltrona, e qualche minuto dopo ha sincronizzato il respiro con Nicola, e russa anche lui.
Attraverso la porta arriva Nicola.
“Rieccoti, non sapevo ti avrei rivisto…pensavo fossi solo una mia follìa”.
“Io non ci sono. Tu, dovresti tornare lì dentro” gli dico indicando il suo corpo che ha cominciato a russare.
“E come faccio?”
“Ti siedi, ti sdrai, fatto”.
“Va bene…ma mi dici chi sei?”
“Tanto quando ti svegli non ti ricorderai di nulla. Forza, da bravo, siediti qua”.
“Nulla? E della caduta?”
“Solo quella. Ora sdraiati, allunga le gambe e chiudi gli occhi”.
“Così?”
“Così come?” gli fa Ferruccio dalla poltrona a fianco. “Bentornato, dormito bene?”
“Mal di testa… ma siamo da te? Hai un’aspirina?”
“Secondo cassetto in basso” arriva una voce dalle profondità della camera da letto.
Ferruccio si alza e la prepara. “Tieni. Come ti senti?”
“Ho sognato qualcosa… ma non ricordo nulla. Sto benone, la gamba mi fa male ma poi basta”.
“Ti sei storto la caviglia, ma il resto va bene” dice guardandolo con sufficienza. “quindi?”
Nicola beve l’aspirina, sospira, e guarda il socio.
“Quindi, non si muore”.
“Potrebbe essere un caso, lo sai”.
“Dieci coincidenze di seguito fanno la regola. Io sono la decima. Dopo tanto tempo, alla fine si vede…”
“Non è detto, dai. E poi, come funziona? Grazia? Culo? Guarigione istantanea?”
“Culo, dici bene. Nessuno si fa abbastanza male”.
“Abbastanza?”
“Io, cado e mi faccio due botte. Guà, si appende e gli si blocca il nodo o chissà. Il gatto prende un colpo. La blatta sotto il carrarmato. I ciclisti. I vecchietti. Nessun incidente, malanno, offesa è abbastanza”.
“E dobbiamo tirare bombe in giro?”
“Non dire boiate. Dobbiamo scoprire cosa è, oppure cambiare mestiere”.
“Sì, come no. Pensiamoci. Per adesso?”
“Per adesso, oooh! Credo tornerò a casa. Che male”.
“Ho detto a tua moglie che sei sbronzo e stai sul divano”.
“Davvero? Ti adoro”.
“Anche io ma son già fidanzato. Mi fido a lasciarti qui?”
“Tranquillo. Non mi muovo, anche perché non ci riesco…”
“Notte Nicò, e stai tranquillo, in qualche modo faremo”.
“Notte Fè. A domani”.
E mentre si spengono le luci in salotto e in camera, torna il silenzio interrotto dagli ultimi grilli.
(continua)