C’era una volta una principessa che viveva in un castello di là dal monte, dopo un ruscello che saltava fra i sassi di una stretta valle, quando gli alberi si facevano più fitti e il picchio bucava i rami con il suo ritmico ticchettare.
Ella si chiamava Rosalita, ed oltre ad una bellezza particolare e fuori dal comune, aveva anche delle doti di carattere che la rendevano diversa dalle altre ragazze.
Ad esempio, al compimento del diciottesimo anno, quando molte delle sue coetanee già avevano stretto contratti prematrimoniali vincolanti nell’ottica di un futuro accasamento con individui maschili di fattezze più o meno decenti e abbienza all’incirca, lei non fece assolutamente nulla. Amava correre per i boschi a cavallo, andare a caccia di cervi, con le sue guardie personali giocava a tendere imboscate ai banditi e tornare al castello con una mezza dozzina di manigoldi legati assieme come una treccia di aglio e pronti da sbattere nelle segrete del palazzo.
Una giovane con dei sani divertimenti, dopotutto.
Moltitudini di re, principi, medi e piccoli proprietari terrieri e latifondisti schiavisti facevano la fila ogni giorno per chiedere la sua mano. Le offrivano regni, ricchezze, piantagioni di cotone addobbate di lavoratori non stipendiati, castelli su scogliere, deserti inesplorati, il tutto condito da una piacevole prospettiva di sfornare regali pargoli (o futuri ereditieri latifondisti) da lì sino alla fine della sua capacità riproduttiva.
Una vita di agiatezza, dopotutto.
Era talmente stanca di ricevere pretendenti e spasimanti che fece fabbricare dagli artisti di castello una sagoma a grandezza naturale di lei, che veniva posta nella stanza delle udienze, e che scuoteva la testa a comando in gesto di diniego. Un pappagallo addestrato la comandava, e sapeva anche imitare la sua voce dicendo “nonnò nonnò” in modo che tutti coloro che venissero a chiedere ricevimento fossero cortesemente messi alla porta. In questo modo poteva nuovamente salire sul suo cavallo verde (la nobiltà ha i suoi piccoli privilegi) e correre per i boschi e per le valli sermonando frecce e frecciate su bestie e villici.
Questo andò avanti per diversi anni. La bellezza della giovane non diminuiva, e nemmeno la sua abilità, ma in compenso aumentava la lista di bellimbusti cassati alle udienze; certo, l’indotto turistico generato da questi pretendenti rendeva il paese uno dei più floridi della contea, con alberghi e ristoranti che vivevano allegramente solo dei denari portati dalle delegazioni dei nobili in visita; tuttavia il re padre suo era molto preoccupato. La figlia sarebbe rimasta zitella a vita! Nessuno l’avrebbe voluta! E quel regno a fianco, con il quale tanto avrebbe voluto fare uno scambio monetario e culturale che aveva delle terme tanto belline che ai suoi reumatismi avrebbero fatto un sacco di bene, ancora non poteva imparentarcisi che il giovane principe era già stato mandato a casa sei volte dal pappagallo.
“Figlia” un giorno le disse, “è giunto il momento che tu prenda una decisione.”
“Marmo rosa, papà!”
“Cosa rosa?”
“Cosa cosa?”
“Hai detto marmo rosa, cosa rosa?”
“Pensavo ti riferissi al mio bagno, dovevamo incominciare i lavori di ristrutturazione, ricordi?”
“Ma chi ci pensava al bagno, l’hai rifatto sei mesi fa in pietra pomice perché volevi grattarti la schiena, sai quanto mi costa? Io volevo invece parlare del tuo matrimonio!”
“Ah con questo matrimonio! Ogni sei mesi torni alla carica!”
“Esattamente ogni volta che vuoi cambiare il bagno. Basta bagni fino a che non prendi una decisione.”
“Questo è un ricatto! Non puoi farmelo, ho ormai ventuno anni!”
“E appunto è tempo che tu trovi un marito e faccia tanti bei piccoli principi per portare avanti la nostra dinastia e rendere florido il regno!”
“Punto primo: se io sfornerò marmocchi, saranno eredi dell’altra dinastia, quindi dubito che saranno mai qui a corte da te e duchini e duchetti della nostra famiglia. Punto secondo: se avessi voluto davvero eredi avresti potuto evitare di mandare il tuo unico figlio maschio al fronte per farsi le ossa, ha deciso pace ai neuroni suoi di ordinare l’aprite il fuoco dal davanti alla bocca del cannone, ogni primavera ce ne portano un altro pezzetto e abbiamo ormai la cripta di famiglia che sembra una rivendita di vasi canopi.”
“Questo è stato un colpo basso”
“E aspetta il Punto Terzo: non intendo scegliere di sposarmi con alcun becero puzzone con le piattole e i denti marci, anche se ha uno strabilione di sesterzi nella cripta del tesoro, un bazillione di acri di terra con migliaia di valvassori, un esercito che quando marcia trema la terra, ne ora ne mai. Puoi segnarlo su una lastra di granito inciso a lettere di bronzo. Credo di essere stata abbastanza chiara.”
“Sei stata chiarissima. A questo punto non sceglierò nemmeno io. Sceglieranno loro: bandirò un torneo al quale potranno partecipare tutti, si batteranno in gare di forza e bravura, e il cavaliere che sarà il più forte fra tutti avrà la tua mano!”
“Non puoi farmi questo! Non te lo permetterò!”
“E invece dovrai ottemperare. I tuoi passatempi sono poco adatti ad una fanciulla ormai in età da marito avanzata. E per evitare che tu possa darti alla fuga, starai rinchiusa nella torre più alta del castello, osservata notte e giorno dalle guardie, fino al termine del torneo. Così ho deciso. Guardie! Prendete la principessa Rosalita e portatela nella torre panoramica!”
A nulla valsero i gemiti, gli strepitii e le lamentele. Rosalita scalciava come un puledro imbizzarrito ma gli armigeri, caricatala di forza, la rinchiusero in cima al castello e lì la lasciarono.
Non pensiate che la torre fosse un luogo di punizione: aveva un letto a tre piazze ad acqua, vasca idromassaggio, frigobar, una biblioteca personale, armadio diciotto stagioni, televisione a centodieci pollici con tutti i maggiori servizi di streaming come Battleflix, Prime Riding eccetera eccetera. Ma era comunque una prigione, per quanto dorata fosse. Rosalita si sdraiò sul letto con le poesie di Baudelaire come lettura, un calice di assenzio ghiacciato, e cadde in una spirale di tristezza e autocommiserazione.
Il Re padre fece le cose in grande. Cominciò costruendo uno stadio apposito per ospitare i giochi, occupando manovalanza gratuita per molti mesi; nel contempo assoldò i migliori grafici e spin doctors del paese per creare campagne pubblicitarie entusiasmanti, inclusive e identitarie che invogliassero tutti i giovani abbienti e in età da marito a cimentarsi per la conquista della mano e del cuore della principessa; e, incidentalmente, anche del regno.
Banditori vennero messi ad ogni angolo di strada; i messi vennero inviati in tutti i regni limitrofi, mediamente lontani e abbastanza a casino, per portare la notizia e informare i rampolli delle altrui nobili casate; per festeggiare le buone nuove alcuni dei messaggeri furono impalati nella pubblica piazza e lì morirono felici di aver portato a termine con successo il compito assegnatogli.
Rosalita guardava tutto dall’alto del suo punto di osservazione privilegiato. I lavori in città brulicavano: gli albergatori costruivano improbabili dépendance per accogliere stuoli di servitori delle varie delegazioni, i ristoratori accumulavano derrate alimentari neanche dovessero affrontare un assedio di dimensioni epiche, i centri estetici fervevano nel tentativo di rendere appetibili tutte le giovani e meno giovani del paese nella speranza di trovare marito fra i secondi, terzi e forsanche ventordicesimi classificati al torneo.
Anche perché, man mano che si scendeva la classifica, era più facile accedere a cavalieri mancanti di vari pezzi: dal terzo al decimo solitamente erano senza un occhio, dal decimo al ventesimo una o più braccia, sotto il ventesimo spesso trovarne uno con entrambe le gambe era una gran fortuna. Si narra di un cavaliere che venne diviso in due durante il duello, e ogni metà andò in marito ad una differente fanciulla non bellissima ma di buon cuore, e ciascuna metà visse una vecchiaia tranquilla e appagante.
In tutto questo la principessa si intristiva e si arrabbiava; non aveva possibilità di scelta, e imprecava a voce alta pensando al futuro opprimente che l’attendeva assieme al nerboruto vincitore del torneo.
Venne il giorno in cui il grande torneo ebbe inizio; le delegazioni dei vari regni contee e papati arrivarono in pompa magna qualche settimana prima, accampandosi fuori città con tende, tendine, tendopoli e padiglioni da circo. I più ricchi andavano negli alberghi dentro la città; i veramente ricchi si affittavano interi palazzi e ci si stabilivano con famiglia, servitori e cavalli. Il Re era realmente soddisfatto della partecipazione, infatti centosettantatrè diversi spasimanti erano arrivati in città, tutti indifferentemente che ambivano ad un unico obbiettivo: portare il loro campione alla vittoria, a qualsiasi costo.
A qualsiasi costo letteralmente: una serie di misteriosi agguati, assalti e omicidi accaddero nel frattempo, colpendo i futuri partecipanti più in voga e riducendo la platea dei principali favoriti dai bookmakers. Fu imposto il coprifuoco per evitare che duelli estemporanei riducessero troppo il roster dei cavalieri che avrebbero partecipato al torneo.
Centoquarantatré si iscrissero al torneo; ventuno trovarono moglie prima dell’inizio, cinque si ritirarono per insufficienza di arti, i restanti furono dati per dispersi.
Gli sfidanti trovarono diverse prove di abilità ad attenderli: oltre alla classica giostra, dove in armatura ci si sfidava a cavallo con lance e armi bianche, dovevano prima affrontare una serie di eliminatorie con lancio del martello chiodato, forgiatura di spade, ferratura dei cavalli, tiro con l’arco alla mela sulla testa del figlio, schiaffo del soldato, solite cose da torneo insomma. Con entusiasmo, energia e testosterone si lanciarono nel completamento delle varie attività.
Al termine della giornata, la classifica era così composta:
Primo, Roncisvaldo della Betulla;
Secondo, FrancoBello di Svegia;
Terzo, Bufasa di Mufania;
Quarto, Banfingoldo di Burragno;
Quinto, Follimperlo dalle Acque Lucenti;
Sesto, Domiziano dal Fiocco;
Settimo, Gorimpazzo dal Campo Lungo;
Ottavo, Il Cavaliere Innominato dal Regno Senza Nome;
Nono, Infingardo terzo conte di Falsonia;
Decimo, Anseglux il barbaro delle terre desolate;
Undicesimo, Jiang-Hon del Drago Smeraldo;
Dodicesimo, FrescoBaldo di Malpurgo;
Tredicesimo, Scalogno di Malasortia;
Quattordicesimo, Sir Winthorp del Flupper del Nord;
Quindicesimo, Conte Malfatto dei Senescenti;
Sedicesimo, Pronocopio del FerroSmalto;
Diciassettesimo, Derelitto di Mangostura;
Diciottesimo, Il Cavaliere Innominato dal Regno Senza Nome a Fianco al Primo ma Senza Nome Anche Quello;
Diciannovesimo, Bellosguardo di Franconia;
Ventesimo, NeroBuso di Sfavillonia.
Il giorno seguente fu dedicato alle eliminatorie; fu stilato il calendario con il quale sarebbero avvenuti gli scontri fra i finalisti.
Qui si vide il reale spiegamento di forza delle congregazioni; tutti questi venti erano non solo i più forti, ma anche con le squadre meglio organizzate, il servizio in pista più veloce, le armature lucide e le armi più affilate. E frigobar pieni di birra e sidro per rinfrescarsi fra un match e l’altro.
In soli quindici secondi riuscivano a cambiare i ferri al cavallo, lucidare l’armatura, affilare la spada e strizzare mezzo gallone di sidro dentro il cavaliere: i bambini dal bordo pista esultavano felici, e se fortunati riuscivano ad acchiappare qualche falange nemica generosamente lanciatagli dai cavalieri durante la sosta.
Roncisvaldo impalò Derelitto al primo scontro; FrancoBello soccombette ad Anseglux che lo trapassò con l’ascia bipenne. Infingardo fece la finta della scarpa slacciata ma Pronocopio non ci cascò e lo freddò con una pugnalata; Bufasa stese Follimperlo a schiaffi, Banfingoldo chiese e ottenne grazia dal Cavaliere Innominato dopo un’estenuante combattimento, Jiang-Hon Aprì Malfatto come un’ostrica con le sole mani nude, Gorimpazzo fu abbattuto da Domiziano, Derelitto con una piattonata mandò a dormire Bellosguardo, Sir Winthorp fu travolto dal cavallo del Cavaliere Innominato mentre beveva il tè con i pasticcini a bordo pista (erano le cinque) e NeroBuso vinse a tavolino contro FrescoBaldo perché aveva utilizzato una mescola per i ferri dei cavalli non consentita.
Il Re era molto fiero di come stavano andando le cose; avrebbe voluto che anche la figlia si godesse lo spettacolo, ma quando inquadrava con il cannocchiale la vetrata panoramica della torre, intravedeva solo la ragazza che scuoteva la testa in segno di disgusto.
“Le passerà, dovrà inchinarsi ai doveri regali”, diceva fra sé e sé, “Almeno si sta guadando lo spettacolo”.
Il terzo giorno fu meno cruento e più studiato del primo. Tutti i partecipanti sapevano di essere il meglio dell’aristocrazia e della potenza monetaria del continente; se una cicatrice sul viso rende più affascinanti, una mano in meno rende difficile tenere le carte a poker, o contare mazzette di soldi. I bookmakers, che si erano sinora tenuti moderatamente cauti, cominciarono a sponsorizzare le quotazioni dei contendenti: Roncisvaldo e Anseglux erano dati 1:2, seguivano Bufasa e Domiziano 1:25, i due Cavalieri Innominati si attestavano a 1:35, Jiang-Hon 1:50 perché combatteva senza armi per voto religioso, NeroBuso 1:60 perché nessuno ancora l’aveva visto combattere, Pronocopio 1:75 perché l’avevano visto scaccolarsi sotto la celata dell’elmo e Derelitto 1:110 perché alla moviola si vide che aveva battuto l’avversario perché era scivolato sul fegato di un precedente avversario lasciato sulla pista.
Anseglux combattè lealmente con Derelitto; dopo due ore di singolar tenzone, una stoccata fortunata lo constrinse all’abbandono ed alle cure mediche. Roncisvaldo evitò abilmente la velocità e le tecniche fulminee di Jiang-Hon, mettendolo al tappeto dopo uno scontro appassionante che mandò in visibilio la folla. Bufasa provò nuovamente la tempesta di schiaffi contro il Cavaliere Innominato, che respinse tutti gli attacchi andando invece a segno con un calcio nel fondoschiena che spedì il campione di Mufania ad incastrarsi nelle transenne. NeroBuso sconvolse Pronocopio con una tecnica mai vista precedentemente, che consisteva nello spogliarsi completamente e correre contro l’avversario il quale, fra lo schifato e il sorpreso, lasciava le armi e fuggiva in direzione contraria; cosa giudicata come abbandono del campo di gara e vittoria dell’avversario. Il Cavaliere Innominato per ultimo mandò a dormire Domiziano dopo una breve ma pugnace battaglia dove come arma avevano scelto gatti feroci.
A fine giornata si scoprì che Anseglux aveva perso perché si era accordato con Derelitto; entrambi avevano bisogno di denaro, e Anseglux aveva chiesto agli strozzini un prestito che aveva investito tutto tramite dei prestanome per puntare su Derelitto, ovviamente perdendo l’incontro ma vincendo la scommessa. Si erano spartiti il bottino ed erano scappati subito dopo il combattimento; furono squalificati entrambi, ma ad ogni modo nessuno dei due si sarebbe presentato il giorno dopo, avendo contro non soltanto il comitato organizzatore, ma soprattutto dagli allibratori e dagli strozzini. Si narra che furono visti assieme su una nave da crociera mano nella mano, segno che l’accordo era molto più che una semplice occasione colta al volo durante il torneo.
Ad ogni modo, erano rimasti solo quattro combattenti in lizza; il successivo giorno avrebbe visto lo scontro fra i Cavalieri Innominati, mentre NeroBuso avrebbe combattuto con Roncisvaldo. La notte fu concitata, con scommettitori che litigavano con gli allibratori su quale fosse dei due il Cavaliere Innominato sul quale avevano scommesso, e su quale sarebbe stato lo stratagemma che NeroBuso avrebbe escogitato durante la battaglia.
Aprirono la giornata i due Cavalieri Innominati. Entrarono ciascuno accompagnato dall’inno dei proprio Regno Senza Nome; inni abbastanza anonimi, orecchiabili ma che dopo il primo ascolto già nessuno ricordava più. Sfoderarono entrambi le armi, sincronizzati e all’unisono; cominciarono il combattimento perfettamente allineati, ciascuno effettuando specularmente le medesime mosse dell’altro. Una finta, una parata di quinta, una stoccata, un affondo di terza: tutti i colpi erano come visti ad uno specchio, e nessuno andava a segno perché poco prima di colpirsi si paravano vicendevolmente. Quello che poco prima poteva essere visto come interessante, divenne presto agli occhi del pubblico come una noia mortale. Cominciarono a lanciargli di tutto: frutta marcia, uova, ortaggi maleodoranti, gatti morti, anche bottiglie piene di liquidi non meglio identificati. Questi elementi esterni introdussero una discrepanza nella simmetria dei due: se sino a quel momento erano stati speculari, un piede su un pomodoro qua ed un gatto morto sotto l’altro là spezzarono la sincronia. L’elemento finale fu una bottigliata che centrò in pieno elmo il Cavaliere Innominato dal Regno Senza Nome a Fianco al Primo ma Senza Nome Anche Quello; rintronato dalla botta, non vide bene il colpo che stava arrivando del Cavaliere Innominato dal Regno Senza Nome e cadde, trafiggendo nella caduta il suo avversario: uniti nel colpo finale, i due si annichilirono generando un lampo luminoso che accecò tutto il pubblico e fu vista a centinaia di chilometri di distanza, facendo cadere uccelli in volo e ingannando le navi davanti ai fari. Il suono non fu altrettanto maestoso: non più di una bottiglia di spumante stappata. Ma quando tutti riuscirono a vedere di nuovo, laddove i due stavano lottando, era rimasta solo una macchiolina nerofumo sulla polvere. Il combattimento fu dichiarato pari, con entrambi i contendenti sconfitti.
Il secondo combattimento della giornata divenne quindi automaticamente la Finale. Roncisvaldo entrò con l’armatura bianca immacolata, senza nemmeno un goccio di sangue degli avversari o un’ammaccatura, acclamato dal pubblico; NeroBuso entrò con un’armatura completamente nera, scintillante nella sua nerezza, con un mantello nero lungo fino ai piedi e una spada nera con il bordo diamantato, accompagnato da una ansiogena fanfara in ritmo di marcia e tonalità minore.
Si lanciarono uno sull’altro con foga e veemenza; quando furono quasi a contatto, NeroBuso sganciò il mantello, lo lanciò addosso a Roncisvaldo e fece per colpirlo mentre quest’ultimo era disorientato dalla mancanza di apporto sensoriale. Il piano non riuscì: Roncisvaldo lo dribblò con un guizzo e gli lanciò il mantello fra le gambe, facendolo ruzzolare a terra. NeroBuso vistosi in difficoltà, decise di usare lo stratagemma utilizzato in precedenza: premette un bottone sul fronte dell’armatura, che si slacciò all’istante in tutti i suoi pezzi lasciandolo nudo come un verme. Prese poi a correre verso l’avversario lanciando urla gutturali, ma Roncisvaldo non solo non si fece intimidire ma scoppiò a ridere sonoramente; NeroBuso ci rimase male, ma ancora di più quando uno schiaffo di mano guantata di ferro lo fece girare tre volte su se stesso e finire a guardare il cielo. Un boato annunciò la vittoria del cavaliere della Betulla, che alzò le mani al cielo in gesto di trionfo.
Il re lo accolse sul palco per la premiazione: costui, chiunque egli fosse, sarebbe stato il suo genero e erede di tutto il regno.
“Roncisvaldo, cavaliere della Betulla, ti proclamo vincitore del torneo, vincitore della mano di mia figlia Rosalita e futuro re del Regno!”
Le urla del pubblico sovrastarono la sua voce, mentre il cavaliere finalmente sfilava il suo elmo. Una cascata di capelli biondo lucenti si svolse sull’armatura bianca, rivelando il volto sereno della principessa Rosalita.
Il re sbiancò e gli tremarono le gambe.
“Ma come è possibile?”
“Ciao Papà! Avevi detto che chiunque fosse il cavaliere più forte fra tutti avrebbe avuto la mia mano, giusto?”
“Si, ma…”
“E quindi sono io il cavaliere più forte del regno, si?”
“Si, beh ecco…” guardò verso la torre panoramica, e gli sembrò di vedere ancora la sagoma a propulsione pappagallica che agitava la testa.
“Quindi la mia mano e il regno adesso sono miei, giusto?”
“Ma tu non puoi partecipare…”
Rosalita si chinò verso l’orecchio del padre e bisbigliò:
“Ho controllato dieci volte il regolamento e l’ho fatto leggere anche dagli avvocati del regno, non era specificato da nessuna parte che i cavalieri non dovessero essere donne, e che gli eredi al trono non potessero partecipare. Ah si, nemmeno che non si potessero utilizzare pseudonimi per mantenere segreta l’identità. Per un re non è bello non mantenere la parola data, eh! Mica è un bagno nuovo questo!”
Il Re si schiarì la voce e dichiarò:
“Il vincitore è Roncisvaldo della Betulla, alias la principessa Rosalita!”
Il popolo esplose in grida di gioia, e fu festa per giorni.
Rosalita assunse il titolo di Regina, instaurò la monarchia repubblicana e cominciò a frequentare un giovane di un regno vicino che proprio ricco non era, ma aveva buon cuore ed era un bravo cacciatore. Il regno prosperò, i sudditi erano felici, e anche il Re riuscì finalmente a farsi tanti mesi all’anno alle terme del Regno a fianco.
Tutti vissero felici e contenti, sinché un giorno in un lampo di luce ricomparvero i due Cavalieri Innominati al centro dello Stadio.
Ma questa è un’altra storia.