C’era una volta, in un piccolo regno nascosto fra i monti, una famiglia reale che se la passava abbastanza bene. Avevano cibo, ricchezze, un popolo adorante e tutta una serie di vantaggi dettati da una desueta modalità di accesso al benessere ricevuti ereditariamente senza dei reali meriti a sostegno.

Poco mancava a raggiungere il più totale appagamento: quello sarebbe stato ricevere un erede, che i reali consorti cercavano da tempo e non erano ancora riusciti ad avere.

Avevano provato di tutto durante gli anni del regno; i migliori maghi si erano presentati al castello promettendo soluzioni miracolose a base di decotti, pozioni e rituali magici. Ma sino ad allora i risultati erano stati nulli, e i ciarlatani che avevano mostrato le loro persone al reale soglio erano stati i più fortunati cacciati a pedate, i men fortunati dati in pasto ai reali coccodrilli del fossato.

Il Re non sapeva più a chi rivolgersi, anche alcuni esponenti di una nuova branca della magia denominata “scienza” si erano palesati, ma ispiravano meno fiducia dei loro più esimi colleghi e non avevano nemmeno raggiunto la sala delle udienze, bensì quella delle torture.

Si ritrovò quindi un giorno di Settembre a passeggiare nella foresta, riflettendo sulla durezza della vita e sui massimi sistemi, quando inciampò su una radice sporgente che tanto radice non era, perché parlava.

“Ahio!”

“Chi è stato?”

“Oltre che maldestro sei anche orbo? Sono qua sotto!”

La vocina stridula proveniva da un fauno che s’era addormentato vicino ad un tronco, e sembrava un tronco anch’esso; il Re vagante ci aveva sbattuto contro, provocandone il risentimento e il fondoschiena dolorante.

“Oh, un piccolo folletto della foresta. Che fortuna averti trovato!”

“Fortuna per te, meno per il mio fatato deretano. Secondo l’antica legge del mondo delle fate, dovrei esaudire tre dei tuoi desideri. Tuttavia ho le batterie scariche perché ieri mattina mi ha calpestato una guarnigione del tuo esercito e ne ho dovuti esaudire centocinque. Per cui te ne concedo uno per adesso, mi predo l’appunto e ci rivedremo in futuro per gli altri, va bene?”

“Meglio di un calcio nel culo” bofonchiò il Re.

“Di nuovo? Mi è bastato il primo, grazie. Allora, questo desiderio?”

Il Re capì con un lieve ritardo quale occasione gli si era parata davanti, anzi in punta di piedi. Poteva finalmente avere l’erede che tanto agognava!

“Desidero che io e la mia regina possiamo avere un figlio!”

“Solo questo? Detto fatto. Torna al tuo castello e stai con la tua signora, vedrai che arriverà. Per gli altri ci sentiremo quando avrò ricaricato le pile”.

“Cosa sono le pile?”

“Sono dei mucchi di cose alti fino al soffitto. Ora vai!”

Il Re non era particolarmente convinto della spiegazione, ma fece spallucce e tornò speranzoso sui suoi passi. Nulla disse alla Regina: non voleva che ancora una volta i sogni di portare avanti la regale stirpe si infrangessero contro la plebea realtà.

Passarono i giorni, i mesi e le stagioni, e arrivò l’estate ed anche un nobile rampollo. Vennero approntati grandi festeggiamenti nel regno; furono dichiarati tre giorni di festa nazionale, durante i quali sarebbero state sospese le fustigazioni alla servitù, annullati i pagamenti delle gabelle e postposte le torture ai galeotti.

La regale sala parto era stata approntata negli appartamenti del cerusico: lenzuola e asciugamani puliti, catini pieni di acqua e erbe medicamentose, barattoloni pieni di sanguisughe, tutto ciò che la più avanzata tecnologia medicale potesse offrire sul mercato. Era giunto il momento, e la levatrice si apprestava a svolgere il suo antico mestiere, incitando la nobile puerpera con decisione e fermezza.

“Spinga! Ci siamo quasi, vedo la testa! Ecco, la vedo!”

E svenne.

Si avvicinò l’assistente, fece per prendere il posto della sua principale, diede uno sguardo e si accasciò anch’ella.

Dai due e dai tre, capirono che il malore che le aveva colte altro non era che una reazione avversa alla bruttezza del bimbo che stava venendo al mondo. Per aiutare la regina dovettero richiedere i servigi di una vecchia ostetrica ormai quasi cieca, e che quindi non veniva influenzata dal diversamente bello bambino.

Peraltro il neonato era in ottima salute; forte e vigoroso, venne al mondo con un pianto forte e un sano appetito. Il re volle vederlo subito, nonostante i pareri avversi della levatrice che si era ripresa; come posò gli occhi sul bimbo però sentì le gambe venirgli meno, e dovette accasciarsi su una sedia prontamente portatagli sotto il regal fondoschiena.

L’unica a non essere colpita dalla bruttezza del bimbo era la Regina. Capì subito tuttavia l’influsso negativo che l’aspetto del suo pargolo aveva sulle altre persone, e in cuor suo pensava a come avrebbe potuto proteggerlo dal mondo intero mentre lo stringeva a se.

Al bambino fu imposto il nome di Ugo e il suo aspetto fu celato alla servitù e al regno negli anni a venire.

Ugo era talmente brutto che procurava svarioni negli astanti se veniva visto senza adeguata preparazione psicologica. Anche se ci si preparava comunque l’effetto non era meno deleterio: perdite di attenzione e stati catatonici più o meno passeggeri erano all’ordine del giorno fra la servitù avvezza al suo aspetto. Figurarsi se a intravedere il viso di Ugo fossero stati i vili plebei: avrebbero sobillato che un demone infestava il castello.

Per questo motivo la regina istituì l’etichetta di corte che prevedeva i sudditi dessero sempre le spalle alla famiglia reale e il principe indossasse una maschera di ceramica, facendolo passare come atto di rispetto ed evitando che durante le udienze vi fossero spiacevoli incidenti diplomatici.

Ugualmente al bimbo venne raccontato che il palazzo era l’unico posto sicuro: al di fuori vi erano tali pericoli e mostri per cui la cosa meno pericolosa che gli potesse capitare sarebbe stata quella di finire servito come antipasto ad uno sgurflaatz vagante. Alcune guardie rimanevano sempre con lui le rare volte che usciva nei giardini, per rafforzargli l’idea che il pericolo era sempre potenzialmente in agguato, oltre che per scacciare eventuali curiosi.

Tutti gli specchi del palazzo vennero avvolti da uno spesso manto di velluto rosso, ed al piccolo Ugo venne raccontata una leggenda inventata di sana pianta circa uno zio vampiro che passeggiava per il castello e che detestava non vedersi nel fondo argentato sulla parete. Ugo per anni guardò di sbieco tutti fratelli del babbo e della mamma cercando di intravedere canini aguzzi nelle fauci, poi ripiegò sull’appendere delle trecce di aglio agli specchi per rafforzare la sicurezza.

Tale stratagemma non potè tuttavia durare in eterno; aveva da poco compiuto i sedici anni e, mentre passeggiava pensieroso lungo i corridoi del castello, inciampò sui suoi piedi in malo modo cadendo lungo disteso fra un’armatura e uno specchio.

Si aggrappò proprio a quest’ultimo mentre ruzzolava a terra, tirando giù il pesante drappo che lo copriva; la servitù non riuscì ad arrivare in tempo che egli si era già rimesso in piedi ed aveva visto il suo riflesso nel vetro argentato.

Rimase fermo alcuni minuti a guardare la figura familiare, durante i quali capì che era lui quello che vedeva, e realizzò anche che era incommensurabilmente totalmente senza possibilità di salvezz alcuna, brutto. Fuggì correndo nelle sue camere, si lanciò a volo d’angelo sul letto e scoppiò in un sonno dirotto per cinque giorni e cinque notti.

Al suo risveglio nulla gli sembrava più come prima. Tutto aveva un colore diverso, il cibo non aveva più sapore, i suoni erano come gessetti sulla lavagna. Si recò dalla madre per cercare consolazione e consiglio.

“Si, è vero, sei brutto, è inutile girarci attorno” gli disse la genitrice, “ma sei anche un ragazzo di buon cuore. Chi è bello dentro non sarà mai brutto”.

“Non è vero, madre! La bruttezza non è qualcosa che si può celare così. Io sono realmente orribile!”

“Si, lo sei, ma nulla è irrimediabile. Sei abbastanza grande per scoprire come poter andare contro questo tuo avverso fato”.

“Davvero? E me lo dici solo adesso?”

“Finchè non sapevi d’esser brutto non serviva. Orsù, rechiamoci dal reale chiromante per chiedergli consiglio!”

Tutte le famiglie più nobili avevano l’addetto alle divinazioni e profezie privato, e anche loro non erano da meno. Con l’ufficio nella torre più alta del castello, dopo duemilaventitrè gradini cosparsi di erbe medicamentose e maleodoranti e tempestati di candele dalla dubbia sicurezza ignifuga, madre e figlio giunsero alla porta dell’ufficio del loro.

Suffumigi inebrianti e sfere di cristallo decretarono che il giovane Ugo avrebbe dovuto intraprendere un viaggio di crescita e apprezzamento personale; questo lo avrebbe condotto alla ricerca di alcuni manufatti magici la cui leggenda narrava avessero la capacità di curare la bruttezza.

Si trattava dei mistici sette cappelli magici.

In un tomo rilegato in pelle di provenienza stranamente familiare (era infatti del fu zio Squinterno, gli dicevano sempre che era un bel tomo ed infatti eccolo lì, trasformato in un bel tomo), senza mai guardare in volto Ugo, il chiromante di corte fece loro vedere ciò che si sapeva sui magici artefatti: il manoscritto riportava che, se indossati uno sull’altro, avrebbero mutato l’aspetto del loro proprietario in modo da rifuggire lo scherno e il disgusto degli astanti. Era presente anche una mappa sommaria di dove avrebbe potuto trovarli: al di là delle montagne a sud del regno, dopo il fiume Violetto, subito a destra della rivendita di formaggi.

Ugo non stette a pensarci troppo: era giovane, forte, e con un discreto desiderio di mettere la punta del naso al di fuori delle quattro mura che lo avevano tenuto in cattività sino ad allora.

A nulla valsero le proteste del Re e della Regina; sellò il cavallo più esperto, caricò due bisacce di vettovaglie e mutande pulite, indossò abiti poco appariscenti per non dare troppo nell’occhio, stipò il borsello con il danaro e le pietre preziose che riusciva a farci entrare e coprì il viso con una sciarpa per non recare disturbo alle genti che avrebbe incrociato. In una fresca mattina di primavera salutò i genitori, la vecchia balia e partì.

Ora, se sei rimasto per tutta la vita chiuso entro quattro mura e il tuo cielo è sempre stato solo il soffitto, è probabile che il primo impatto con gli spazi aperti e sconfinati non sia proprio rose e fiori. Così accadde anche ad Ugo: un portentoso attacco di panico lo colse dopo nemmeno mezz’ora di piccolo trotto, lasciandolo a bordo strada tremante nel mantello avvolto. Procioni volpi e marmotte vennero a visitarlo per accertarsi che stesse bene, e dopo aver appurato che nemmeno fosse commestibile oltreché interessante lo lasciarono al centro della sua spirale di mestizia.

Dopo aver riflettuto sulla sua condizione, sedato l’animo agitato tramite un ben orchestrato training autogeno, accettato il fatto che quella cosa azzurra e immensa non gli sarebbe piombata in testa e che nemmeno lui sarebbe volato in su senza un soffitto, riuscì a rimettersi in piedi merito anche di alcune erbette corroboranti che aveva sottratto all’alchimista. Cavalcò per tre giorni e tre notti sino a che il suo cavallo, esperto ma non scemo, decise di scioperare dirigendosi in un verde campo a pascersi di erbette e al grido di “mobbasta” rifiutò di muoversi oltre.

Dal momento che la radura era isolata dal mondo e dalle strade principali, si tolse la sciarpa che celava i suoi lineamenti e fece due passi nel vicino bosco per cercare qualche fungo interessante, nel senso sia di commestibile che di psicotropo, dato che le erbette di cui sopra erano ormai terminate. Vagava fra gli alberi quando inciampò su una radice sporgente che tanto radice non era, perché parlava.

“Ahio!”

“Chi è stato?”

“Oltre che maldestro sei anche AAAAAAAAAARGH copriti il viso per l’amor del cielo! Sei l’umano più brutto che abbia mai visto! Via! Via!”

E gli lanciava manciate di foglie secche mentre si scavava un fosso nel substrato di foglie e micelio. Come avrete potuto intuire, la vocina stridula proveniva da un fauno che s’era addormentato vicino ad un tronco, e sembrava un tronco anch’esso; il principe vagante ci aveva sbattuto contro, provocandone il risentimento e ma soprattutto uno spavento non da poco alla vista del viso.

Ugo si rimise la sciarpa e toccò il sedere del Fauno, unica parte del corpo che era rimasta fuori dal terreno dopo l’improvvisa autotumulazione.

“Ehi, ho coperto il viso, puoi uscire”.

“Sicuro? Mi fido, eh?” e ancheggiando uscì fuori.

“Chi sei tu, folletto?”

“Sono Fauno, e dal momento che mi hai trovato, secondo l’antica legge del mondo delle fate, dovrei esaudire tre dei tuoi desideri. Ma sei troppo brutto e non riuscirei a guardarti in viso mentre li esprimi, per cui mi limiterò ad esserti di supporto morale e offrirti bacche e radici in segno di amicizia”

“Il mio solito regale culo” bofonchiò fra se e se Ugo, mentre il fauno evocava una piccola tavola imbandita e lo invitava a sedersi. Assieme chiacchierarono delle loro rispettive storie, la famiglia faunesca e i desideri più strani e di quella volta che lo aveva calpestato una guarnigione dell’esercito del paese vicino e aveva dovuto esaudire più di un centinaio di desideri.

“Buffo” disse Ugo, “E’ la medesima storia che mi raccontava mio padre quando accennava alle magiche circostanze del mio concepimento”.

“Aspetta: tu saresti il figlio del Re qui sotto? L’età sarebbe quella giusta..:”

“Si, sono l’unico erede del Re, e sono in cerca dei sette cappelli magici che mi toglieranno la bruttezza!”

“Cavolo, dovevo avere realmente le batterie scariche se sei venuto così! Di solito i principi mi vengono molto più aitanti, avevo realmente esaurito la magia…”

“Ma quindi…tu saresti…”

“Il solo e unico Fauno, il folletto dei desideri, il genio che non ti aspetti, ma anche il Tronco che tronco non è. Piacere giovane Ugo, questo nostro incontro mi rammenta di avere delle questioni in sospeso…è stato un grande piacere conoscerti, termina pure il frugale spuntino che ti ho preparato e lascia tutto qui apparecchiato, lo ritirerò più avanti. Arrivederci e auguri per la tua ricerca!”

Detto questo girò i tacchi e svanì nel folto del bosco depositando dietro di sé una nebbia arancione, lasciando Ugo perplesso e masticante. Raccolse le sue quattro cose, si accertò che la sua cavalcatura avesse riacquistato sufficiente autonomia e lemme lemme si avviò verso le montagne del Sud del Regno e il fiume Violetto.

Quest’ultimo si chiamava in tal modo realmente per il suo colore: le acque lilla scorrevano liete nelle aspre gole scavate fra i monti, i pesci lilla risalivano la corrente e le rane lilla allietavano il paesaggio con il loro lillaceo canto.  Nessuno sapeva il perché di tale cromatica aberrazione, nemmeno la conceria nanica a monte era stata in grado di fornire spiegazioni valide.

Ugo passò il ponte violetto per andare al di là del fiume; già si vedevano i primi cartelloni pubblicitari del locale caseificio con spaccio annesso, rinomato per il pecorino viola, la ricotta viola, la viozzarella e il gorgonviola.

“Sarà, ma non mi ispirano tropperrimo” fece Ugo, mentre teneva la destra del complesso agricolo. Le indicazioni del libro rilegato in pelle umana si fermavano lì: oltre quello era territorio non tracciato. Avanzava cautamente cercando di individuare cosa potesse aiutarlo nella ricerca dei cappelli magici, quando si imbattè e sbattè la testa contro l’insegna di benvenuto di un paesino non riportato sulle mappe.

“Benvenuti a Pulcra, città della musica e delle belle arti”

Lo sguardo del principe vagò per le strade e le loro popolazioni. Si sentì subito pervaso da un sentimento di pace e accettazione, amplificato dagli sguardi degli abitanti locali. Impiegò un poco a comprendere il perché di quella sensazione, e lo stupore lo avvampò come una emozione da tempo sopita, reputata persa, ma che si risveglia dalle pieghe dell’animo.

Erano tutti quanti, senza nessuna esclusione, oltre ogni possibilità di redenzione o perdono, al di là di ogni ragionevole dubbio, brutti.

Brutto era il pittore che realizzava un quadro di grande bellezza. Brutto era il fioraio che componeva con i fiori centrotavola di rara delicatezza. Brutta la panettiera che esponeva panificati artistici in vetrina. Brutti i bambini che giocavano a palla all’angolo della strada. Brutti brutti tutti, nessuno si salvava.

L’intera città era l’apoteosi della bruttezza elevata ad arte, che faceva il giro del cerchio e tornando dall’altro lato diventava bellezza. Ugo si diresse verso la casa del capomastro per presentarsi e chiedere informazioni, e nel tragitto si sentì libero di lasciar via la sciarpa che gli manteneva celati i lineamenti. Grandi furono i sorrisi degli astanti; pur sempre brutti ma calorosi, quando videro che il forestiero era brutto par loro.

Il capomastro lo accolse a braccia aperte, al pari di come si accoglierebbe un figliolo rimasto per tanto tempo lontano da casa. Gli offrì un boccale di ottimo sidro e lo fece accomodare mentre gli raccontava la storia del villaggio.

Come lui, tutti gli abitanti o erano giunti nella zona alla ricerca dei sette cappelli magici, o erano discendenti dei primi che si erano avventurati nella speranza di trovare i mistici artefatti. Nemmeno a dirlo che nessuno era riuscito a trovarli; ma alla fine, creando una comunità di anime affini e di bruttezze simili, avevano trovato la pace nella loro ricerca di un’effimera bellezza mortale.

“Non è forse questa la magia, allora?” chiese Ugo. “Il fatto che, se siamo tutti brutti, non lo sia più nessuno?”

“Ci ho pensato spesso” rispose il capomastro “perché se la differenza è in realtà normalità, allora nessuno è differente”

“Ma non rischiamo così di escludere quelli che non sono brutti?”

“Certo, abbiamo provato a integrarli, ma si svegliavano di notte in preda agli incubi e disturbavano tutti…”

“Credo di capire…”

“Ad ogni modo sei il benvenuto anche tu se volessi stabilirti qui da noi. Troverai che tutti sono d’aiuto con tutti, se vorrai costruirti una casa tutto il villaggio farà la sua parte”.

“Grazie capomastro. Guarderò in giro e mi farò un’idea di quello che mi potrebbe servire”.

Ugo non stette ad attendere troppo. Prese una stanza in affitto da una famiglia del luogo e visitò in lungo e in largo Pulcra, parlando con tutti e raccogliendo i pareri su quello che c’era e quello che mancava in città. Paradossalmente nel paese dove tutti venivano a cercare i mistici capelli magici mancava di una bottega di copricapi; così si ritagliò il suo spazio nell’economia locale e la sua attività prosperò in breve tempo.

Grande era l’afflusso di viandanti molto brutti alla ricerca dei mistici cappelli, molti si stabilivano nel paese, tanti volevano un cappello. Andava particolarmente forte il modello con “Sono venuto in cerca dei cappelli magici e tutto quello che ho avuto è questo” ricamato in cerchio sulla tesa, tanto che ben presto dovette espandere il giro di affari e assumere due aiutanti per soddisfare la richiesta interna ed esterna del mercato.

Fiutando l’affare, Ugo decise a suo modo di far avverare la profezia; cominciò personalmente la produzione di sette cappelli identici, da esporre in vetrina e vendere ad un prezzo folle per tutti quelli realmente convinti di voler adempiere al loro fato di negazione della bruttezza.

Li lavorò contemporaneamente; erano tutti e sette sempre allo stesso stadio di produzione, con le stesse dime e sagome, e quando l’ultimo punto fu affisso nell’ultimo dei sette, successe l’inspiegabile: una nebbia arancione riempì il laboratorio, e con uno scalpiccìo di piccoli piedi ungulati Fauno fece la sua comparsa.

“Ciao, vecchio e orribile amico mio! Vedo che te la passi bene!”

“Ciao solo e unico Fauno! Sei per caso arrivato a causa della profezia che si avvera, avendo io terminato l’ultimo dei sette mistici cappelli tarocchi?”

“Eh, di cosa vaneggi? Lascia i tuoi cappelli a chi li apprezza, sono un latore di buone notizie. Evvualà!”

E impose le sue irsute mani sopra il principe, che all’istante cambiò fisionomia e divenne sempre Ugo, sempre riconoscibile in quanto tale, ma non più brutto; era diventato normale.

Ugo senti che qualcosa era cambiato in lui, e in meglio. Si guardò nello specchio per le prove di indossamento e vide subito il cambiamento epocale; anche Fauno riusciva a guardarlo in viso senza dover tradire smorfie di disgusto.

“Ma allora i cappelli hanno funzionato”

“No-ooo, di nuovo con questi cappelli magici. Sono stato io! Mi ha inviato il tuo regale Padre dopo che avevo riacquistato abbastanza energia da poter esaudire i suoi due desideri mancanti che avevo lasciato in sospeso ormai diciassette anni fa. Uno era quello di farti avere un aspetto non più brutto, infatti. Ed eccomi qua!”

“Per curiosità, l’altro desiderio cos’era?”

“Poter terminare ogni buca a golf con un doppio eagle”

“Tipico di mio padre”.

“Beh, si è fatta una certa, io quasi andrei a cercare dei tub…”

“Fermo lì…se non sbaglio anche io e te abbiamo tre desideri in sospeso, o no?”

“Ma ti ho offerto il the…”

“Si, ma non li avevi esauditi perché non riuscivi a guardarmi in volto…ed ora invece riesci. Quindi…hai abbastanza energia?”

Fauno si sedette a zampe incrociate sul pavimento, non nascondendo un’espressione infastidita sul volto.

“Va bene, va bene. Un patto è tale e va rispettato. Sono pronto, cosa vorresti? Fama? Ricchezza? Donne? Una fornitura a vita di Lego?”
“Cosa è Lego?”

“Un supporto creativo che sviluppa il cervello. Com’è noto, è l’emisfero cerebrale sinistro quello che sovrintende le attività logiche, quelle più coinvolte nella nostra routine lavorativa. I Lego cercano di stimolare proprio l’altro emisfero, attivando la creatività e l’immaginazione che sono governate da…”

Ugo aveva lo sguardo vacuo di un vitellino intento a ruminare.

“Ok, magari Lego allora no, ma ti farebbero bene, sai. Quindi?”

“Il primo desiderio è che tutti in questo paese abbiano un aspetto normale e non più brutto, come hai fatto con me!”

“E’ divisivo questo, lo sai vero? E se non volessero smettere di essere brutti? Hai preso in considerazione, come fai a ergerti giudice dell’altrui bellezza?”

“Hai ragione. Sei un saggio Fauno. Allora, senti questa: chiunque prenda i sette mistici cappelli che ho creato, e li indossi uno sull’altro, smetterà con effetto immediato e non reversibile di essere brutto; i cappelli saranno pertanto magici e senza termine alla durata dell’incanto”.

“Questo è già più inclusivo: ciascuno potrà scegliere se usufruirne o meno! Evvualà, sono magici. Poi?”

“Voglio che la fama del mio cappellificio oltrepassi i confini del regno e diventi il più famoso e rinomato del continente”.

“Ci sta, sano affarismo. Fatto, già da domani arriveranno le prime commesse. Ultimo?”

“Che il cappellificio possa dare sostentamento a tutta la cittadina di Pulcra per tanti anni a venire, generando un indotto tale da mantenere un tenore di vita alto per tutti gli abitanti”.

“Il tempo ti darà ragione, giovane principe. I tuoi desideri erano stranamente più saggi di quanto mi aspettassi per una persona del tuo lignaggio!”

“Tipo?”

“Terminare ogni buca a golf con un albatross”

“Capisco, ma preferisco il baseball”.

“Ci sta. Beh, si è fatta una certa! Addio principe, che la saggezza sia sempre tua compagna!”

E svanì avvolto nella nebbiolina arancione.

Ugo uscì fuori dalla bottega e subito fu circondato da una piccola folla di paesani strabiliati per il suo cambiamento. Ugo glissò su Fauno, ma disse semplicemente che aveva realizzato i sette cappelli e che la profezia si era avverata. E annunciò che era a disposizione di tutti, nessuno escluso, e chiunque avrebbe voluto mutare il suo aspetto in qualcosa di non brutto semplicemente indossandoli.

Il mese dopo l’afflusso turistico era quintuplicato grazie alla profezia funzionante e alla florida produzione di copricapi. Ugo trasformò la bottega in una società per azioni, tenne una quota simbolica del 2% e regalò le altre a tutta la popolazione di Pulcra.

La cittadina divenne ben presto il polo produttivo di cappelli per l’intero continente, e gli abitanti vissero per decenni in floridità e agiatezza.

Si dice che Ugo abbia poi aperto un percorso da golf, ma questa è un’altra storia.

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