C’era una volta una bimba di nome Eutelia che voleva sempre ascoltare una favola bella lunga prima di addormentarsi.
Era talmente abituata a sentire una favola diversa ogni sera che i suoi genitori non avevano più favole nuove da raccontare, e così dovettero ricominciare a raccontare le favole già sentite prima. Ma Eutelia non era molto contenta di questo: sbraitava, si lamentava e non voleva dormire.
“Questa l’ho già sentita! Non mi piace! La conosco già!”
E lanciava i cuscini, pestava i piedi, mordeva il gatto per esternare la sua insoddisfazione.
Successe così che la mamma e papà trovarono un libro dalla biblioteca, che ancora non avevano letto, e nella speranza di far tranquillizzare un po’ la loro bambina lo portarono a casa per cercare di farla addormentare. Eutelia non era molto fiduciosa.
“Sarà qualche favola che già conosco, solo con un nome diverso!”
Cercando di ignorare i commenti acidi della bambina si sdraiarono sul lettone, aprirono il libro e cominciarono a leggere.
“Era una notte buia e tempestosa…”
Successe allora una cosa stranissima. Il libro cominciò a sfogliarsi da solo, le pagine si giravano velocissime e un vento proveniente da chissà dove soffiò impetuoso nella stanza; una forza invisibile trascinò la bimba tra le pagine del libro, risucchiandola fra la centotredici e la centoquattordici. Mentre il libro la divorava tendeva la mano verso i genitori, urlando a pieni polmoni.
“Aiutatemi! Vi prego! Mamma! Papà! Salvatemi!”
Ma nulla poté essere fatto: tempo pochi secondi e la manina protesa sparì nella cellulosa. Il libro si chiuse, il vento cessò e la stanza rimase silenziosa e immota.
Com’è ovvio che sia si preoccuparono tantissimo: agitarono il libro, provarono a scuoterlo con le pagine in giù, a leggerlo tutto prima dall’inizio alla fine e poi dalla fine all’inizio, ma non ci fu alcun effetto. Restava sempre un normalissimo libro senza Eutelia all’esterno.
Eutelia si risvegliò, ancora con il suo pigiama rosa e le pantofole a coniglio nei piedi, sdraiata su un bellissimo prato rigoglioso. Il sole splendeva alto, una leggera brezza soffiava e gli uccellini cinguettavano a pieni polmoni. Uno strano gatto stava correndo verso la strada, in piedi sulle zampe posteriori, infilate in due buffi enormi stivali; da lontano, una sontuosa carrozza procedeva a piccolo trotto, trainata da quattro sontuosi cavalli bianchi. Il gatto cominciò a urlare con voce stridula ma umana.
“Sire! Fermatevi! Il mio padrone, il marchese di Carabas, stava facendo il bagno al fiume, quando due briganti gli hanno rubato il cavallo, tutti gli averi e i vestiti, aiutateci!”
La testa di un ragazzo, alquanto perplesso, spuntava dall’acqua del fiume lì vicino.
La carrozza si fermò, si aprì la porta e si affacciarono il re e la principessa, una fanciulla di rara bellezza.
“Ohibò, che brutta situazione! Preso, miei servitori, portate dei vestiti asciutti per il marchese, dateglieli! Lo riaccompagneremo in città!”
La bambina ebbe l’illuminazione e corse verso la carrozza, gridando:
“La so! Questa la so! Il ragazzo non è un vero marchese ma un poveretto che ha ricevuto in eredità dal padre un gatto parlante che adesso convince il Re che è un marchese derubato di tutto viene rivestito portato a palazzo e il gatto lo fa entrare nelle grazie della famiglia reale e sconfigge il gigante chiedendogli di trasformarsi in un topolino poi fa credere che il castello sia quello del finto marchese e la principessa si innamora e si sposano! La conosco!”
Un silenzio imbarazzante scese sul prato, anche gli uccellini non zufolavano più. Il re squadrò la bambina, il gatto e il falso marchese al fiume, gridò al cocchiere di frustare i cavalli e con uno scalpitìo di zoccoli fuggirono in men che non si dica.
Eutelia gongolava. “Eh si, è proprio così!”
Il gatto con gli stivali si avvicinò con aria minacciosa.
“Tu, ragazzina, hai rovinato il mio piano perfetto per conquistare le grazie del re e assicurare al mio padrone un futuro agiato. Ci avevo lavorato per settimane, e quando si è presentata l’occasione giusta sei spuntata fuori tu e non so come hai raccontato tutto a tutti, distruggendo il mio duro lavoro! Ma io ti meno!”
E cominciò a inseguirla tempestandole il fondoschiena di calci, ma forti forti forti tanto che la spinta le fece attraversare le successive tre pagine e arrivò direttamente nella favola dopo.
Cadde sul tetto in paglia di una torre altissima di un castello, sfondandolo; finì su un impiantito in vecchie travi di legno, coperto di polvere. Si stropicciò gli occhi per adattarsi al buio; piano piano riuscì a vedere il contenuto della stanza. Una scala a chiocciola saliva da un lato; era vuota, a parte per un vecchio arcolaio e una vecchina che filava la lana. Un rumore di passi e scricchiolii di legno indicava che qualcuno stava salendo piano.
Una giovane ragazza bionda sbucò dai gradini, con lo sguardo curioso; guardò Eutelia, con atteggiamento altezzoso e senza curarsi di lei, come se facesse parte dell’arredamento. Era vestita con abiti principeschi, crine e merletti, chiaramente era una principessa nell’aspetto e nel comportamento. Si avvicinò lentamente all’arcolaio, come se non ne avesse mai visto uno (e in effetti, anche Eutelia non lo aveva mai visto, anche se ne aveva osservato un’immagine in un libro) e allungò una mano per toccarlo, proprio in direzione dello spillone. Fu in quel momento che la nostra bimba ebbe l’illuminazione e gridò:
“Ferma! Ferma! La so! La so! Tu sei Aurora, adesso tocchi lo spillone, cadi in un sonno eterno e tutto il castello si ferma con te, perché quando sei nata i tuoi genitori hanno invitato tutte le fate del regno tranne una, che si è offesa tanto da lanciare una maledizione che al tuo diciottesimo compleanno ti saresti punta con uno spillo e ti saresti addormentata, ma dopo cento anni un principe scopre il castello avvolto nei rovi ti libera ti bacia ti sveglia vi sposate e vivete per sempre felici e contenti!”
Si bloccò ansimando, perché non aveva preso fiato per tutta la frase. Aurora era raggelata dalle sue urla, si girò e la vide per la prima volta. Stava per aprire la bocca per chiedere qualcosa, quando l’intera stanza si scoperchiò e il tetto volò via con una folata di vento, e la vecchina si tramutò in una arrabbiatissima fata, squadrando le due ragazze con occhi di fuoco. Puntò un dito verso Eutelia.
“Tu! Piccola canaglia! Hai rovinato il mio piano perfetto! Sai quanto ho aspettato questo momento? Diciotto fottutissimi anni! Passati a rodermi il fegato in una casetta nel bosco, mangiando bacche e radici, e cagando pot-pourri! E quando arriva il giorno che attendevo, mentre stavo qui a godermi lo spettacolo, ecco che dal nulla compari tu e mandi all’aria tutto. Tutto! La mia vita sprecata! Ma la paghi, oh se la paghi! Non crederai di scampartela!”
E cominciò a inseguirla tempestandole il fondoschiena di calci, ma forti forti forti tanto che la spinta le fece attraversare le successive tre pagine e arrivò direttamente nella favola dopo.
Intanto i genitori di Eutelia chiamarono la polizia, raccontando che la figliola era scomparsa all’interno del libro. Gli agenti li ascoltarono con attenzione, presero tutti gli appunti, e poi li arrestarono con l’accusa di aver fatto qualcosa di brutto alla bambina, tipo venderla ad una multinazionale delle esche per la pesca d’altura o cucinarla in tegame con i piselli e le cipolline fresche. Li portarono per direttissima in caserma, li gettarono in cella e requisirono il libro come prova, mentre rivoltavano come un calzino la loro casetta – senza ovviamente trovare la benché minima traccia che potesse provare la colpevolezza dei due genitori. Ad ogni buon conto rimasero in gattabuia ancorché la piccola non veniva ritrovata.
L’atterraggio non fu dei migliori. Col sedere dolente dai calci appena ricevuti, questa volta finì in un cespuglio di rovi; con grande fatica riuscì a venire fuori, anche se il pigiama era alquanto malridotto. Era in un bosco, e stava calando il sole; le ombre si allungavano fra gli alberi, regalando al posto un’aria minacciosa, mentre il fresco della sera cominciava a farsi sentire con il vestito poco adatto che indossava. Cercò qualche punto conosciuto nel paesaggio, ma non le era familiare nulla; in mezzo agli alberi un filo di fumo si alzava lento.
“Sarà una casetta, almeno potrò dormire da qualche parte al calduccio” disse fra se e se, e si incamminò nel folto delle frasche. Ogni cespuglio sembrava un animale feroce, ogni fruscio un mostro che voleva assalirla, la paura le cresceva grande facendola inciampare nelle radici per la fretta. Camminò e camminò, sinchè le pantofole furono fradice e le gambe indolenzite; arrivò infine ad una piccola casina nel profondo del bosco, dove una luce alla finestra indicava che c’era qualcuno all’interno. Stava per bussare, quando sentì un canto provenire da qualche parte alle sue spalle; era un coro di voci profonde ma gioviali, che celebrava la giornata di lavoro in miniera e la soddisfazione di aver fatto il proprio dovere.
Erano sette nanetti, compiti e seri, con le facce sporche di terra e le camiciole sgargianti anche nella penombra della sera; con pale, picconi e candelotti di dinamite in spalla, ritornavano a casa stanchi ma contenti. Eutelia rimase in disparte, intimorita da quella squadra di calcetto con riserve che trotterellava dentro la casa; come si aprì la porta, vide che una bella ragazza in abiti poco adatti alla vita delle selve li accoglieva con grandi sorrisi e un pentolone di stufato che sobbolliva nel camino.
“Magari ne avranno un po’ anche per me”, e si incamminò anche lei dentro la casetta. Bussò piano alla porta, perché era tutto sommato una bambina ben educata, Si presentò e chiese il permesso di entrare e scaldarsi vicino al fuoco.
Fu accolta a braccia aperte; la gentilezza dei nanetti e della ragazza era tanta, e dove c’è da mangiare per otto si mangia di solito anche in nove. Le diedero così dei vestiti puliti e caldi, delle scarpe comode e un piattone di stufato di patate e scoiattolo; si sentì così coccolata che sprofondò in una poltrona e si addormentò stanca morta, sognando la mamma e il papà.
Si svegliò al mattino con una copertina addosso che qualcuno le aveva messo durante la notte per proteggerla dal freddo. La casa era silenziosa, i nani erano usciti nuovamente; erano sole lei e la ragazza, che stava cucendo una camiciola sulla poltrona dirimpetto.
“Ben svegliata!” le disse con un dolcissimo sorriso.
“Uh, grazie! Sono ancora un po’ stronata. Dove mi trovo? Chi sei tu?”
“Questo è il Grande Bosco, e io sono la principessa Biancaneve. Abito qui con i sette nani minatori, è una lunga storia…”
Eutelia avvampò di emozione rossa nelle guance, saltò in piedi sulla poltrona e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
“La so! LA SO! Questa la conosco! La tua matrigna la strega cattiva non sopporta di essere meno bella di te perchè lo specchio magico le dice che no e ti vuole far uccidere dal cacciatore che invece si è commosso dalla tua bellezza e ti lascia sola in mezzo al bosco dove hai trovato la casetta con i settenani e ti sei installata scambiando vitto e alloggio con le pulizie e la cucina ma poi arriva la strega cattiva mascherata da innocua vecchina e ti vuole regalare una mela chepperò è avvelenata, ma tu sei jolly e la mangi e cadi come morta a terra, i settenani ti fanno il funerale tristi frusti e ti mettono in” – interruppe un attimo per prendere un respiro che aveva finito il fiato – “AAAAAAAH una teca di cristallo e piangono piangono sino a che non arriva il principe azzurro che ti vuole portare via per onorarti che forse era un po’ necrofilo e cadi dalla bara sputi la mela ti svegli e ti innamori e ti sposi e la vecchia megera balla con le scarpe roventi e schiatta!”
Biancaneve la guardò con gli occhi grandi da cerbiatto pieni di orrore, stava per aprire la bocca e dire qualcosa quando un ruggito arrivò dall’esterno e la porta venne buttata giù da un’esile vecchina incavolata come un aspide. Lanciò un cesto di mele in un angolo della stanza, acchiappò una sedia e fece per colpire la bimba ancora in piedi sulla poltrona.
“Chi sei tu! Da dove vieni! Come fai a sapere tutte queste cose? Mi hai spiato? E la mela! Ho studiato questo piano per gli ultimi mesi! Avevo preparato tutto! Tutto! E adesso è andato tutto in malora per colpa di chi? Tua! Tempo e energie sprecate, e questa sciacquetta è ancora viva, e io sono al punto di partenza! E poi megera a chi? Ma come ti permetti? Ma chi ti credi di essere!”
E cominciò a inseguirla tempestandole il fondoschiena di calci, ma forti forti forti tanto che la spinta le fece attraversare le successive tre pagine e arrivò direttamente nella favola dopo.
Intanto la mamma e il papà vennero formalmente accusati per la scomparsa della bimba e furono portati davanti al giudice e, sebbene avessero assoldato l’avvocato più in gamba e preparato del foro, anche quello sconsolato li preparava al fatto che difficilmente avrebbero potuto evitare le patrie galere. Tristissimi e in lacrime, raccontandosi tra loro le favole che più erano piaciute alla figlioletta, si abbracciarono nella notte attendendo l’alba del processo, gridando la loro innocenza e il dolore per la mancanza della piccola da dietro le sbarre.
Con il fondoschiena dolorante e una gran malinconia addosso Eutelia si rialzò in un prato a fianco ad una casetta in legno carina e ben tenuta, con le tendine in pizzo ricamate alle finestre e dei bei gerani nelle fioriere. Anche qua stava facendo sera, le mancavano la mamma e il papà, e cominciava a fare fresco – anche se con i vestiti di Biancaneve stava ancora al calduccio. Prese il coraggio a due mani e bussò alla porta.
“Avanti” disse una voce in falsetto dall’interno. Aprì la porta, e entrò dentro. Era ancora più accogliente di quanto potesse immaginare: colori caldi, cuscini morbidi, profumo di biscotti appena sfornati, il suo animo si rinfrancò un poco.
“Vieni, vieni!” disse di nuovo la voce in tono innaturale, proveniente dalla camera da letto. Un po’ sospettosa si avviò attraverso la porta, e rimase non poco perplessa alla visione che le si presentò: un grosso lupo grigio era sdraiato sotto le coperte, con una buffa cuffietta da notte sulla testa e le zampe che spuntavano da sotto il lenzuolo. “Avvicinati, così che io possa vederti bene!” disse quello.
Eutelia mangiò la foglia, e decise di stare al gioco. Conosceva anche questa, certo; ma decise di vedere come andava a finire, magari divertendosi un po’. Mise su la sua migliore faccia da angioletto, quella che usava quando aveva mangiato di nascosto la marmellata ma non voleva ammetterlo con la mamma, e disse al lupo:
“Nonnina, ma che occhi grandi che hai!”
“E’ per vederti meglio!”
“E che orecchie grandi che hai!”
“Per ascoltarti meglio, piccola mia!”
Aveva in mente qualche altra domanda per non esaurire subito l’argomento e esplorare alcune teorie che aveva sempre avuto sulla questione.
“E che baffi lunghi che hai!”
“Eh, sono stata poco bene e non sono riuscita a farmi la barba come avrei voluto..:”
“E che unghie lunghe e sporche che hai!”
“Ho dovuto rimandare la manicure, l’ultima estetista l’ho mangiata, volevo dire l’ho licenziata…”
“E che peli lunghi che hai!”
“Cappuccetto, ma sono cose da dire alla nonna? Vieni qui che ti do un bacetto…”
“Ma nonna, hai un alito fetente, sembra che tu abbia mangiato il sacchetto dell’umido!”
“Ho la digestione pesante, l’ultimo agnellino mi è rimasto sullo stomaco…”
“Nonnina, ti faccio allora una bella tisana digestiva per mandare giù tutto! Resta a letto, ci penso io!”
Girò i tacchi e si diresse verso la cucina, anche se in realtà stava spiando dalla finestra il sopraggiungere di Cappuccetto in persona. Mise sul fuoco il bollitore e aprì poco poco la porta di casa giusto prima che l’altra bussasse, per informarla dell’intromissione del Lupo che si era mangiato la nonna. Cappuccetto acconsentì ad andare a chiamare il cacciatore, e mentre correva da lui l’acqua iniziò a fischiare sulla stufa. Gli preparò una corroborante tisana di acqua bollita, la portò in camera e casualmentissimamente inciampò nel tappeto, rovesciandola tutta sul canide allettato; quello saltò sul letto gridando per il dolore e sfondò la finestra del salotto. Eutelia gridò “PULL!” e il lupo fu impallinato al volo, stile tiro al piattello, dal cacciatore che attendeva di fuori. Quando toccò terra era stecchito.
“Lo sapevo! Lo sapevo! Era il lupo che si era travestito da nonna dopo averla mangiata e aspettava che tornassi per mangiarsi anche te dopo averti turlupinato con alcune risposte stupide alle quali avresti creduto come un pollo e ti avrebbe mangiato e poi sarebbe arrivato il cacciatore che avrebbe seccato la bestia aperto la pancia e tirato fuori te la nonna e l’estetista! E adesso posso andarmene da questa favola e tornare a casa!”
Quest’ultima cosa però non avvenne: Eutelia rimase lì alla finestra, mentre Cappuccetto la guardava perplessa e il cacciatore tirava fuori una semi-digerita vecchina dall’interno dello stomaco del lupo. Passarono alcuni imbarazzanti minuti durante i quali non successe assolutamente nulla, mentre un silenzio carico di domande si addensava fra gli astanti.
“Ho capito,” disse infine “devo fare tutto da sola!”
Prese una lunga rincorsa, saltò vicino all’abbeveratoio di fuori e con un balzo atletico si lanciò al di là della favola.
La mamma e il papà di Eutelia erano davanti al giudice. Erano state ascoltate tutte le testimonianze, visionate tutte le prove, controllato i report della polizia scientifica, gli avvocati avevano fatto le loro arringhe più appassionate; pur tuttavia il togato non sembrava particolarmente ben propenso nei loro confronti. Si era ritirato per poi deliberare, ma voci di corridoio dei soliti ben informati dicevano che sicuramente erano stati loro due a far sparire diosolosadove la povera bambina, e che sicuramente li avrebbero sbattuti in cella e buttata via la chiave.
Il giudice uscì dalla porta dietro la cattedra e si sedette; tutta l’aula era ammutolita nell’attesa. Il silenzio vibrava come una corda di chitarra che viene tesa. Una mosca solitaria girava in aria, infastidendo gli spettatori; la scacciarono in più persone, e trovò ristoro unicamente sul banco dove erano esposte le prove del processo. Camminò un po’ ovunque, sinché non giunse sopra il Libro.
Infatti, anche quello era lì: oggetto di scherno, alla testimonianza dei due genitori molte risate si erano levate dagli astanti. Quando mai, risucchiata dal libro! Potevano inventarsi una storia migliore!
Eutelia atterrò aggraziatamente in un prato fiorito. In lontananza, una casetta dalla buffa foggia sorgeva al limitare di un bosco; sembrava bitorzoluta, e di un marrone strano. Conscia ormai dei pericoli che in una favola possono nascondersi, la prese alla larga e si avvicinò dal lato dove non c’erano finestre; e solo allora si rese conto di cosa fosse realmente composta la casetta.
Era totalmente di biscotto e marzapane.
Due bimbi dall’aria alquanto malnutrita si stavano avvicinando alla casetta. Eutelia li intercettò prima che arrivassero in zona e li prese in disparte, dietro una sporgenza.
“Hansel, Gretel, voi non mi conoscete ma sono una vostra ammiratr…amica. Dovete ascoltarmi, ne va della mia e della vostra vita.”
“Abbiamo tanta fame” dissero i due bimbi.
“Lo so, ma ascoltate. Dentro la casetta c’è una strega. Cercherà di rapirvi e di far ingrassare Hansel per mangiarselo, e sfrutterà te, Gretel, per fare le faccende domestiche.”
“Abbiamo tantissima fame”, continuarono.
“Si, ma dobbiamo fare le cose in maniera ordinata e con un piano preciso per far finire tutto nel modo migliore per me e per voi.”
“Abbiamo tantissimissima fame”
“La casetta è fatta di marzapane e focaccia e i vetri sono di zucchero!”
“YEEEEAAAAHHHHH” urlarono i due bimbi, lanciandosi in corsa forsennata verso la casetta. Da lontano si sentiva rumore di dentini.
Eutelia prese una vanga che aveva adocchiato lì vicino e si mise dietro la porta della casina. Si sentì da dentro la vocina stridula e malvagia della strega.
“Chi mi mangia la casina, zuccherosa e sopraffina?”
I bambini risposero:
“E’ il vento che piega ogni stelo, il bel bambino venuto dal cielo.”
E continuarono a mangiare. Gretel tirò fuori tutto un vetro rotondo e Hänsel staccò un enorme pezzo di focaccia dal tetto. Ma d’un tratto la porta della casa si aprì e una vecchia decrepita venne fuori piano piano.
Eutelia calò la vanga sulla testa della strega e quella cadde a terra tramortita con un tonfo. Hansel e Gretel la guardarono con preoccupazione.
“E’ morta?” Chiese Hansel preoccupato, masticando un pezzo di stipite.
“No, si sveglierà con un grosso mal di testa. Aiutatemi a metterla sul letto. Quando avrete mangiato, raccattate tutti i gioielli e le pietre preziose che trovate dentro e tornate a casa vostra, così vivrete felici e contenti!”
“Ma così è un furto!” disse Gretel.
“Senti, ragazzina, questa vi voleva fare arrosto. E’ già molto se non la infiliamo nel forno come si dovrebbe per terminare bene la storia. Ma prima la finiamo e meglio è, per tutti noi!”
I due bimbi riempirono uno zaino di qualsiasi cosa preziosa potessero trovare; anche l’argenteria venne spazzolata via. Staccarono una porta per sostentarsi durante il viaggio, abbracciarono Eutelia e si diressero per la loro strada; lei invece entrò nella casina, si sedette su una seggiola di panbiscotto e aspettò che la vecchia megera ritornasse in sé.
“Aaaah che mal di testa che mi è venuto… ma cosa è stato?”
“Ciao strega, ben svegliata” disse Eutelia accarezzando la vanga.
“Oh, una bella bambina! Vieni, riposati e mangia quello che vuoi…”
“Non provarci, come ti ho stesa prima lo rifaccio anche adesso” e fece oscillare la vanga sulla testa.
“Capisco. E quindi, cosa vorresti da me? Perché sei qui?”
“Avrai già capito che non sono di qui, di questo mondo. Voglio tornare a casa, e tu sai come devo fare. Fammi uscire da questa favola e da questo libro.”
“Cosa ti fa pensare che sappia come fare?”
“Guarda. La favola termina con te che cuoci al forno. Sono abbastanza sicura che se lo facessi potrei andare direttamente nella prossima, se non addirittura fuori. Ma sono una bimba buona; anche se ho capito che le favole devono andare come devono, e non mi metterei problemi a farla giungere al suo decorso naturale.”
“Ah, ecco”
“Quindi ti chiedo: fammi uscire da questa favola e nessuno si farà male.”
“Credo di avere qualcosa che possa fare al caso tuo” disse mentre si alzava dal letto.
“Niente scherzi e tieni le mani bene in vista” fece Eutelia, memore dei tanti telefilm polizieschi visti col papà.
La megera si avvicinò allo scaffale e prese una boccetta verde, un gessetto e un barattolo di sale. Tracciò un cerchio magico per terra, ne rinforzò il perimetro con il cloruro di sodio e versò su alcune rune al centro il contenuto della boccetta.
“Adesso salta dentro, e non farti mai più rivedere, guastafeste!”
“Chi mi assicura che non finirò in un girone infernale popolato solo da agenti immobiliari?”
“Nessuno. Ma hai la mia parola, non si sa mai che torni tu e il badile per qualche strano motivo.”
“Non ho molte alternative. Addio, strega!” e spiccò un balzo per atterrare al centro del cerchio.
“A mai più, seccatrice” sentì la voce in alto, mentre cadeva in un pozzo senza fondo, sempre più veloce, sempre più buio.
“In base alle testimonianze ascoltate, e alle prove fornite dalla polizia scientifica, la corte dichiara i due imputati…”
Il libro cominciò a vibrare violentemente, interrompendo la sentenza del giudice. Saltellò sul banco, cadendo violentemente a terra; si spalancò di scatto e un vento fortissimo cominciò a soffiare dal suo interno, sfogliando le pagine con velocità notevole. Un lampo di luce abbagliò tutti i presenti, ed Eutelia saltò letteralmente fuori dal libro, vestita con abiti di foggia vetusta e con una vanga in mano. Atterrò in posa plastica sul pavimento, alzò lo sguardo e non riuscì a capire bene dove fosse: gli sguardi di tutti erano puntati su di lei. Riconobbe un’aula di tribunale, forse quello era il giudice, e lì davanti la sua mamma e il suo papà erano con le lacrime agli occhi nel vederla di nuovo.
“Mamma! Papà! Sono tornata!” gridò mentre si lanciava verso di loro, buttandosi sul banco e abbracciandoli con forza. Tutti e tre rimasero a piangere, mentre pian piano un applauso dapprima timido e poi via via sempre più forte si alzava dal pubblico. Anche il giudice era esterrefatto, aveva la bocca aperta ancora da quando stava pronunciando la sentenza e non era riuscito a chiuderla per lo stupore.
Quando alla fine l’applauso scemò, l’avvocato della difesa si avvicino alla cattedra e disse qualcosa al giudice, che riacquistò contegno, chiuse la bocca e sbattè violentemente il martello di legno chiedendo silenzio.
“Sulla base degli ultimi sviluppi, dichiaro i due imputati prosciolti da ogni accusa!” dichiarò solennemente.
E gli applausi ricominciarono.
Più tardi, quella sera, i nostri tre si ritrovarono di nuovo a letto, abbracciandosi felici di essere di nuovo assieme.
“E adesso? Non vorrai che ti raccontiamo una storia?”
“No, papà… e se ve ne raccontassi una io, invece?”
“Sarebbe bellissimo” rispose la mamma.
“Allora, era una notte buia e tempestosa…”