Giangiacomo Cappelletti era un patito delle ultime tecnologie. Poteva permetterselo, e quindi ad ogni mirabilia elettronica aveva sempre le antenne puntate: televisori, computer, elettrodomestici e, passione mai sopita, i telefoni portatili. Questi ultimi avevano avuto, negli ultimi anni, un’accelerata paurosa: i modelli e le varianti si moltiplicavano di mese in mese, tanto che presso il suo negozio di elettronica d’elezione era ormai diventato una sorta di mascotte fra i commessi.
 Anzi, solevano dire che se il Giangi avesse adottato il nuovo dispositivo al lancio sul mercato, sarebbe stato certamente un battesimo positivo per il gadget, e avrebbe avuto un buon successo di vendita.
 Così come nel campo delle pure apparecchiature era sempre all’avanguardia, altrettanto lo era nel comparto dedicato ai programmi per le stesse. Febbrilmente sfogliava gli store delle varie piattaforme, in cerca delle ultimissime novità: era un early adopter di tutto ciò che veniva pubblicato, in giornata decine di applicazioni venivano installate, provate e cancellate. Nulla gli sfuggiva; giochi, utilità, semplici passatempi. Miliardi di bytes passavano attraverso le nand e lasciavano il posto per altre, ogni giorno. Quintali di virtuali uccellini, alieni, mappe, pantheon mistici si infrangevano contro il vetro del suo touchscreen, continuamente, come orde barbariche fermate dalla muraglia di vetro sotto le sue dita. Formattava come se non ci fosse un domani, il ripristino era sempre in agguato, non sapeva mai cosa gli avrebbe potuto riservare l’application store: buono o cattivo, comunque fosse, aveva diritto ai cinque minuti di fama sul suo schermo.
 Fu così che, in un pomeriggio tranquillo, la sua usuale caccia alla novità si soffermò sulla nuova app per il riconoscimento musicale. Ne aveva già tre, una delle quali effettuava anche il controllo incrociato della versione del brano per dare le informazioni più precise sull’album; ma nessuna sinora era mai riuscita a superare il suo test personale, il riconoscimento dei cori kazaki minerari, un raro album che aveva acquistato durante un viaggio una decina di anni prima. Effettuò il download, installò correttamente “Mirasonic” e avviò il programma. Un solo pulsante verde con un punto interrogativo comparve sullo schermo.
 Interfaccia minimalista, pensò. Premette a vuoto, il bottone lampeggiò pigramente qualche secondo per poi girare su se stesso mostrando una faccina triste. Bene, almeno non prova a imbrogliarmi. Armeggiò con il suo impianto audio, mettendo in esecuzione i suoi amici del kazakistan, e premette di nuovo. La faccina girò, il punto interrogativo lampeggiò, la faccina riapparve e questa volta era felice. Un nugolo di scritte apparve sotto, mentre la faccina andava in su per lasciar posto alle informazioni.

 Kazakistan Ekibastuz Mineral Choir – Neke Qiyu
 Scritta: 27 ottobre 1982
 Incisa: 14 dicembre 1982
 Studio di registrazione: Karagandy National Ballroom
 Componenti:
 Dinmuchamed Kanaev – Basso
 Nursultan Nezarbeiv – Basso
 Askar Nazarayev – Baritono
 Gwnnadij Koblin – Baritono
 Georgi Malenkov- Tenore
 Denis Istomin – Direttore
 Mikhail Ereshnikov –  mixerista

 E continuava così per diverse pagine. Ogni nome era cliccabile, e portava alla scheda biografica del relativo componente, mixerista incluso. Giangiacomo ne fu stupefatto e estasiato.
 Provò allora con un vecchio disco italiano, un quarantacinque giri dell’Equipe84; ovviamente digitalizzato con un’apparecchiatura apposita, efficace e pratica. La faccina sorrise ancora, e snocciolò chili di informazioni fino all’ultimo recondito componente, persino il ragazzo che portò in studio due birre, inciampò e incise il suono delle bottiglie che si infrangevano a imperitura memoria di una sete non spenta, non venne risparmiato alla posterità.
 Perché non provi a canticchiare un motivetto? Gli suggerì l’applicazione. Lui incuriosito colse la palla al balzo, e con qualche nota stonata accennò l’aria del Rigoletto.
 Gli venne fornita la composizione dell’orchestra della Prima alla Fenice, fino all’ultimo violino.
 Adesso ti frego io, si disse, e prese un vecchio demo di quando suonava con gli amici nella cantina di Zio. Il punto di domanda lampeggiò. La faccina sorrise, e gli diede anche il numero seriale del registratore a quattro piste Tascam, oltre al fantomatico studio di registrazione “Zio Umberto Tarsilli Garage”.
 Per lo spavento di vedere il suo nome sullo schermo, assieme ai suoi vecchi compagni di università, lanciò il telefono sul divano e si appiattì sulla parete opposta.
 Con riluttanza si riavvicinò e lo riprese in mano. Devi avere un punto debole, gli disse, e fischiettò un motivetto che gli era venuto in mente qualche giorno prima.
 Giangiacomo Cappelletti – Composizione senza titolo n.257
 Scritta: 12 Febbraio 2012…
 Urlò, gli scivolò dalle mani e cadde per terra, aprendosi in vari pezzi e sparando in lontananza la batteria. Non può essere, qualcuno mi sta giocando uno scherzo. Uscì fuori da casa, corse nel vialetto e guardò se ci fosse un’auto diversa dal solito, il classico furgoncino da appostamento magari, ma nulla di strano gli saltava agli occhi: tutto era uguale a se stesso, come tutti i giorni. Si sedette su gradini all’ingresso, respirando profondamente per calmarsi e far passare la tachicardia, e contò fino a mille prima di rientrare dentro. Riprese i pezzi del telefono, lo rimontò piano, e riaccese.
 Mirasonic era stata già rimossa dallo store, tecnicamente per violazione delle politiche della casa. Solo lievemente violata, pensò tra se e se: quelli sapevano anche il mio colore preferito delle mutande, figurarsi i brividi nella schiena che avrà fatto venire a tanti altri. Cercò recensioni online ma ne trovò ben poche, non erano poi stati in molti ad averla scaricata. Calcolò che dovesse essere rimasta disponibile per neanche cinque minuti, un tempo realmente esiguo per guadagnarsi una decente fetta di utenza.
 Con somma attenzione riaprì l’incriminato eseguibile e ne controllò le informazioni, dato che in rete era impossibile risalire al suo genetliaco informatico. Era stata pubblicata da un piccolo studio indipendente con sede in Australia, in una cittadina sperduta nell’Outback: lui neanche sapeva cosa fosse l’Outback. Si mise l’anima in pace e cercò di dimenticarsene, con un bagno caldo (nella sua vasca idromassaggio a ventitrè bocchettoni massaggianti ad alta pressione e impianto surround a dodici canali), un bicchiere di vino bianco (raffreddato nella sua cantinetta elettronica stabilizzata con pareti in marmo travertino e cella di peltier) e un film da Netflix (visto sul suo oled da 76 pollici e audio a stimolazione corticale).
 Ma uno strano tarlo si impossessò di lui, la curiosità crebbe fino a che non si ritrovò ad osservare le mappe del centro dell’Australia alla febbrile ricerca della sua ossessione; prese la decisione e due settimane di aspettativa, cercò un biglietto di sola andata per Sidney, acchiappò qualche paio di mutande e calzini, li infilò nello zaino assieme a qualche chilo di elettronica e il passaporto e salì sul taxi. Due ore dopo era in fila al terminal, quattro dopo era in volo sopra l’Egitto.
 Diversi film scadenti, pasti riscaldati e bambini schiamazzanti dopo, atterrò infine dall’altro lato del mondo. Cercò direttamente un automezzo in affitto e, inserita la rotta e caricato viveri e acqua, partì alla volta di Ayers Rock. Incontrò pochi altri esseri viventi lungo la strada: più canguri che uomini, camion sterminati, automobili col contagocce, e giusto al limite della stanchezza riposò in locande lungo il tragitto. Dopo tre giorni e varie deviazioni dalla via principale il GPS gli disse che era giunto in prossimità della sua destinazione, mentre si intravedevano le prime casette comparire ai bordi della strada; individuò un albergo, scaricò bagagli e attrezzature e si avviò all’indirizzo segnalato. Sentiva che presto avrebbe avuto una qualche risposta.
 Ma rimase deluso e frustrato. All’indirizzo segnato, un portone sbarrato e finestre inchiodate lo accolsero; nessuna targa, segno o altro denotava la presenza di una qualche attività umana. Mentre scrutava l’edificio con circospezione, gli si avvicinarono alcuni uomini con l’aria smarrita quanto la sua.
 Mirasonic? Gli chiesero. Sì, rispose. Erano tre persone che come lui erano giunte lì per cercare sollievo alle loro paure e curiosità: giunte il giorno prima, un cinese e due irlandesi, si erano scontrati con la mancanza di qualsiasi informazione nel luogo. Risiedevano nel suo stesso albergo, e lì fecero una riunione per studiare un metodo di indagine: avevano tutti notato che all’indirizzo era comunque presente una cassetta postale, per cui decisero di inviare una lettera e osservare chi fosse venuto a ritirarla. Così fecero, convinsero una vecchietta che abitava di fronte ad affittargli una stanza per stare in appostamento, e rimasero dietro le tapparelle a controllare la strada, nutrendosi di patatine e XXXX.
 Era il turno di Giangiacomo, circa verso le tre del mattino, quando un uomo in bicicletta passò per la via, fermandosi di fronte alla cassetta. Scosse gli altri dal torpore mentre quello scendeva, parcheggiava a fianco al portone e, con sua grande sorpresa, lo apriva con grande tintinnare di chiavi! In due falcate fu in strada, l’attraversò e riuscì miracolosamente ad infilare la punta del piede nella fessura della porta dove aveva appena infilato la bicicletta, mugolando preghiere all’indirizzo dello sconosciuto per ottenere risposte; i suoi compagni di avventure lo raggiunsero, e le preghiere si moltiplicarono per quattro.
 Forse per la compostezza delle richieste, perché si aspettava che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno o forse soltanto perché non ne aveva voglia, lo sconosciuto aprì il portone ai quattro. Era un giovane dall’aria trasandata e lo sguardo stanco, che li invitò ad entrare; li fece accomodare su un vecchio divano sdrucito e polveroso, non gli offrì nulla e si accese una sigaretta nel buio della notte, illuminata a malapena dalla luce dei lampioni che filtrava dalle persiane piene di buchi.
 Non era un programmatore, ma la software house era comunque a nome suo, e lui ne era principale, dipendente e sguattero. Aveva semplicemente recuperato, circa sei mesi prima, un vecchio computer usato ad un’asta di beneficenza, salvo poi scoprire che quello era ancora pieno di programmi; una volta connesso alla rete, si era collegato ad un database musicale simile a quelli più grandi, ma con quantità di dati notevolmente maggiori e più accurate rispetto alla concorrenza. Tale database era criptato; sembrava che l’unica chiave fosse su quel suo fortunosamente ottenuto desktop. Aveva quindi preso in prestito codice da alcune realtà a distribuzione libera, ricompilato alla bella e meglio un po’ di routine di accesso al database e messa su un’interfaccia grafica basilare per poi sottoporre alla revisione dello store l’applicazione finita, che era stata pubblicata ad inizio settimana. E poche ore dopo lo stesso store glie la aveva tolta per violazione dei diritti.
 Fine della storia.
 Il cinese non fu affatto soddisfatto, e chiese di vedere il computer; disse di essere un ingegnere informatico, e che avrebbe certamente potuto capire di più se avesse potuto vedere dove portava quel misterioso database. Il ragazzo all’inizio non fu particolarmente favorevole, poi vide che non avrebbe più cavato fuori un centesimo dalla faccenda e li condusse in un’altra stanzetta, dove erano in funzione alcuni mainframe, abbastanza vecchiotti. Si sedette alla console, mentre gli altri da bravi spettatori si accomodavano alle sue spalle; pestò un po’ sulla tastiera, scaricò qualche programma di tracing da un netbook che gli era magicamente comparso in mano, organizzò al volo un man in the middle e rimase a guardare le righe di query che pian piano crescevano sul monitor. Stava già friggendo sulla sedia quando gli arrivarono le triangolazioni. Si girò verso gli altri, e aveva uno sguardo perplesso.
 Viene dall’orbita, disse a bassa voce. Allo stesso momento, il flusso di dati sullo schermo si fermò, lasciando il posto ad un ultima riga lampeggiante, che chiedeva: come avete fatto ad avere questo accesso?
 Il ragazzo chiese e ottenne il posto alla tastiera. Ho acquistato questo PC ad un’asta, scrisse. Non avete autorizzazione per utilizzare questo flusso di dati, gli risposero. Disconnettetevi e distruggete l’apparecchiatura.
 Il cinese intanto continuava a raccogliere dati, e il traceroute si stava avvicinando sempre più alla fonte del segnale. Diteci almeno chi siete, scrisse in un ultimo tentativo di avere un chiarimento alle domande di tutti. Il trace cominciava a dare segni di squilibrio, fece notare l’ingegnere: adesso segnava 397.514.0.292 mufrid.arcturus.boote.gal e si era fermato.
 Il progetto Far Listener toglie questo accesso, comparve sullo schermo; dopodichè, non fu più raggiungibile da nessuna postazione, neanche da Mirasonic, da nessun terminale mobile. Si  guardarono, spensero i dispositivi e rimasero al buio. Un irlandese propose una birra, gli altri accettarono, e attraversarono la strada per raggiungere la stanza in affitto e recuperare le bottiglie rimaste.
 Stavano gozzovigliando e effettuando ipotesi su controipotesi, teorie complottiste e rettiliani inclusi, quando due camionette nere comparvero dal nulla, fermandosi con stridìo di gomme davanti alla sede fantasma della software house; ne uscirono una mezza dozzina di uomini in abito scuro, che sfondando la porta ci si infilarono dentro. Il ragazzo sarebbe voluto andare a chiedere spiegazioni, ma gli altri lo fermarono sedendocisi sopra. Quelli là uscirono con tutte le apparecchiature presenti nella stanza, monitor e cavetteria inclusi, e le lanciarono nei capienti cofani, dopodichè sgommarono via nel buio dal quale erano arrivate.
 Quando rientrarono nella stanza non c’era più nulla: avevano portato via anche il cavo in fibra ottica, tagliato a cesoie poco fuori dalla parete. Una nuda scrivania campeggiava al centro, con una solitaria seggiola a farle da contrappunto: null’altro era rimasto. Il ragazzo si sedette sconsolato, calcolando mentalmente il costo delle apparecchiature sottrattegli. Gli diedero chi una pacca sulle spalle, chi una stretta di mano, gli lasciarono i recapiti cibernetici e lasciarono la casa, diretti verso l’albergo; non scambiarono più parola, e il giorno dopo ciascuno partì per la sua strada.
 Il ritorno fu meno interessante dell’andata, anche i canguri gli sembrarono in quantità minore. Comprò un cd di canti aborigeni da una bancarella in strada vicino all’aeroporto, come tutti i souvenir dei suoi viaggi, e si imbarcò.
 Nessuna applicazione fu mai in grado di riconoscere quel cd, ma non è che glie ne importasse poi tanto.

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