Ogni notte non era mai sola. Un brivido di freddo, un soffio di ghiaccio le spostava i capelli, e la strana sensazione di essere osservata. Aveva più volte acceso la luce, controllato ogni angolo, ma nulla era saltato all’occhio.
Certo, poi dormiva comunque, e bene anche. Al mattino, quando il sole filtrava attraverso le tapparelle, la casa era rassicurante e normalissima.
Un giorno lo vide. Era ferma alla banchina della gialla, che ascoltava qualcosa con le cuffie, e scorse dall’altro lato un ragazzo che la scrutava. Era vestito di un lungo cappotto grigio chiaro, le mani nelle tasche, un ciuffo che gli pendeva sulla fronte alta. Aveva i capelli completamente bianchi. Non sa perché pensò fosse lui, ma se lo sentì dentro: sgomenta, sussultò per l’arrivo del treno, e lo perse di vista. Quando le carrozze si fermarono, nel luogo da lui occupato fino a poco prima, non c’era più nessuno.
Lo scorse anche più tardi, mentre saliva la scalinata per arrivare in facoltà. Era seduto in fondo al parco, a fianco ad un grosso gatto striato, e sembrava che stessero discutendo. Prese il telefono dalla borsa, per fargli una foto; nel display non si vedeva, c’era solo il micione. Eppure era là. Pensava di sbagliarsi, ed era anche curiosa, sarebbe andata più vicino, ma una sua amica la raggiunse e cominciò una discussione sull’ultima lezione di storia della pedagogia; nemmeno a dirlo, allo sguardo successivo non c’era più.
Quando a sera arrivò di nuovo a casa, trovò una rosa sul pianerottolo. Bianca, fresca, ancora gocciolante di linfa il gambo. Decise che era stato lui. Lasciò la porta socchiusa, abitava in un condominio privato con l’accesso regolamentato, quindi non ebbe paura. Sedette sul divano, si mise comoda e guardò la televisione, sperando, aspettando che accettasse l’invito ed entrasse.
Forse il programma era particolarmente noioso, o la giornata spossante, fatto sta che le scese un sonno dolce e pian piano perse contatto con la realtà. Non sognò nulla.
Qualche ora dopo, tornò alla veglia. Una caffettiera mandava un profumo inebriante sulla cucina, la porta era chiusa. Balzò in piedi come un lampo, corse alla porta, ai fornelli, al tavolo, ma nulla era intorno. Tutto era tranquillo.
Prese una tazza, si versò il caffè, e si sedette sulla poltrona nel balcone, ad osservare la città. Il traffico rombava poco distante, luci guizzavano nel buio; da qualche parte, fiumi di birra.
Nel condominio di fronte, sul balcone dall’altra parte, c’era lui.
Si guardarono a lungo, indagatore quello di lei, dolce il suo sguardo. Gli fece segno di brindare con la tazza fumante, e lui di risposta si esibì in un breve inchino.
Perché non vieni? Gli gridò.
Lui rimase ad osservarla, in silenzio. Magari non può parlare.
Grazie per il caffè, ma perché non ti fermi a parlare?
Un uomo, con cane al guinzaglio, alzò il naso per seguire quella strana conversazione a senso unico. Il cane lo strattonò con vigore, forse aveva visto qualcosa, e lo trascinò via dalla curiosità.
Si indicò al petto, come a chiedere: io?
Si, tu, chi altri?
Sorrise, fece un altro inchino, girò le spalle e sparì dentro l’appartamento. Pochi istanti dopo, un lieve bussare al portone la fece trasalire. Appoggiò la tazza perché la mano le tremava troppo, con un gesto automatico si riassettò assicurandosi che fosse in ordine il vestito. Piano andò verso la maniglia, girò piano, e aprì. Un soffio di ghiaccio le spostò i capelli.
Ogni notte non era mai sola.

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