(Per la prima parte, riveduta e corretta, andate QUI)
Da dietro il bancone arriva la risposta perplessa, “Macché, il panificio è chiuso da due giorni e quello viene dalla bottega di zio…”
“Due giorni? E che fa Gualtiero?”
“E chi lo sa? Negli ultimi tempi lo vedevo solo al mattino e poi spariva! Neanche per il mezzo di bianchetto prima di pranzo.”
“Non dite nulla, ma si stanno lasciando con la Viola” mormora una gola profonda dal lato, “hanno portato le carte da mio cognato che fa l’avvocato a Mognago due settimane fa!”
Come un campo di girasoli, si girano tutte le orecchie.
“Ma dai!”
“Orpo, e dire che stavano così bene!”
“Peccato per Tiero, la Viola l’è una bella gnocca!”
“Non c’è più la mezza stagione” dice perplesso Nicola a Ferruccio “e via di luoghi comuni. Sembra che prendano sempre le stesse cose da dire!”
“Ecco perché la bambina non è in classe con mia figlia a settembre” fa Giuliano poco distante “ho visto gli elenchi degli iscritti alla terza e non c’era, ma me ne accorgo solo adesso.”
“Gualtiero è poco forte, prima di sposarsi ancora stava dalla madre anche se aveva casa giù al forno. Secondo me sta male davvero, forse è meglio andarlo a trovare” consiglia Arturo, con la flemma paternalistica che solo i baristi di mezza età riescono ad avere per la loro prole tracannante “e per me è meglio se ci muoviamo adesso. Cinno, tieni il bancone!” e lancia lo straccio al brufolletto che fa le parole crociate all’altro lato del bancone.
“Vengo anch’io” fa Ferruccio, sollevandosi dalla sedia con rumore. Anche Giuliano si alza, e assieme escono verso la UAZ di Arturo, vecchio residuato della cortina di ferro gelosamente tenuto assieme con fil di ferro e antiruggine.
“Non ne fanno più come questa, eh!” dice ironicamente Ferruccio mentre apre con circospezione la portiera, osservando i piccoli pezzi di ossido marrone che crocchiando colano giù sul selciato.
“Già!” gli fa eco Arturo, e il suo sbattere la porta provoca una piccola valanga dalla portiera.
“Meno male…” osserva Giuliano a voce nulla, spostandosi una molla che gli preme nel fondoschiena più in là, ed accomodandosi alla meglio sulla panca posteriore.
“Portami un panino nuovo” fa Nicola dalla porta, mentre lo sferragliante fuoristrada si mette in moto in una nuvola di diossina e composti potenzialmente cancerogeni, e i tre cavalieri partono nella nebbia autoprodotta alla volta del panificio.
Arrivo poco prima di loro; un vantaggio di quando si è defunti è che le distanze sono personali, non importa più quanta strada c’è per un certo posto, semplicemente ci vai e sei già lì. Se poi conosci le zone, arrivi davvero prima. Un discorso a parte invece se non sai dove stai andando, qualche anno fa volevo visitare Oslo e ci ho messo diversi mesi anche solo per uscire dal confine Italiano. Ho dovuto fare sosta in tutti i cimiteri che ho trovato per la via e disturbare qualche medium (si, non tutti sono dei ciarlatani; certo, dicevano che ero lo zio Fernando di qualche malcapitato, o mi chiedevano se conoscevo la cugina Germana e dove aveva nascosto la chiave della cassetta di sicurezza, ma dopo un po’ che si chiede educatamente ed ostinatamente ti rispondono) ma alla fine ho avuto il mio viaggio. Presto proverò anche a salire su un aereo, vedremo.
Ad ogni modo, i nostri non sono ancora qui, e la casa di Gualtiero è chiusa. Vive sulla strada che sale sulla collina, a ridosso del bosco, e come molti panettieri ha l’abitazione sopra il forno; per chi deve fare lunghe nottate a seguire cotture, come impone il mestiere più antico del mondo dopo quell’altro, è più comodo avere doccia e letto vicini. E’ un bravo ragazzo, conosco il padre; ama il suo lavoro, è una specie di artista in quello che fa. Quando il venerdì prepara la doppia infornata per non cuocere anche il sabato, c’è la fila di persone di ogni età che aspettano la prima per poter prendere un pane in anticipo e assaporare il gusto unico che ha quello buono, bollente di forno e croccante in crosta. Se c’è una persona amata nel paese, è di certo lui.
Un gatto mi guarda, da dietro una legnaia. Dietro di lui si affacciano quattro paia di occhietti, sono i suoi piccoli, che mi guardano anch’essi. E’ proprio vero quello che si dice, che i gatti possano vedere gli spiriti; ma siamo come una cosa qualsiasi del mondo, abbiamo diritto a pochissimi secondi della loro attenzione, se il vostro gatto fissa un punto del muro è molto probabile che vi stia prendendo in giro o sia immerso nel pensiero di quella lucertola che ha visto, non è detto che ci sia un fantasma. In lontananza si sente il rumore imponente del fuoristrada di Arturo che sopravanza, ed i gattini incuriositi si affacciano ad osservare l’avvenimento, finchè mamma gatta non li rispedisce a schiaffoni nel loro rifugio, imprecando come solo i gatti di lunga esperienza e saldo senso della famiglia sanno fare.
“Qua sembra che non ci sia nessuno da un po’” dice Arturo appena sceso. Raccoglie un pacco di pubblicità dalla cassetta della posta, “queste sono offerte scadute”
“Mi preoccupa, che fine avrà fatto?”
“Suona alla porta, io faccio il giro” grida l’omone mentre sta già imboccando il vialetto sul retro. Legnaia di prima, un mucchio di mattoni coperto da un telo di juta, tavolino in plastica con sedie ed una cascata di capperi dal muro; una piccola veranda coperta da una tettoia in legno sovrintende la porta, appena appoggiata ma non chiusa a chiave. “E’ aperto!” grida Arturo a gran voce, ma lo spazio ampio e la casa massiccia impediscono agli altri di sentire. Quindi, con circospezione, apre ed osserva il retrobottega, ingombro di sacchi di doppio zero e semola, ceste di plastica su una bilancia massiccia, e cumuli di sacchetti di carta intonsi. Il profumo della farina riempie l’aria.
La corrente è attaccata, accende e chiama a pieni polmoni “Gualtiero! Guaaaaaa! Ci seiiiii? Sono Arturooooooo!!!” Mentre con fare guardingo esplora le stanze al pianterreno. Il laboratorio è sgombro, in ordine e pulito, pronto per rimettersi in funzione; la bottega è ugualmente a posto, con qualche pane decorativo in vetrina, gli scaffali vuoti e i salumi che ronzano sotto il vetro dell’espositore, mortadelle ignare del presente. La cassa, dopo una breve ispezione, segna come ultima chiusura cinque giorni prima. Le voci degli altri due fanno la loro comparsa all’interno dell’ambiente.
“Sono qua” fa dalla bottega.
“Tutto vuoto?” gli chiede Ferruccio.
“E’ chiuso da quasi una settimana, avrei dovuto accorgermene prima, mannaggia a me” s’incolpa Arturo, crollando sulla seggiolina dietro il bancone. Sente che la responsabilità di quello che è accaduto, qualunque cosa sia, è solamente sua, avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava quando non arrivava Gua il mattino con il motocarro e le ceste.
“Non è colpa tua e non lo sarà mai, e vedrai che è tutto a posto ed è solo partito per qualche giorno per sbollire, dai retta a me” dice Giuliano appoggiandogli una mano sulla spalla “adesso controlliamo la casa, glie la chiudiamo e lo cerchiamo da qualche parente”. Cerca soprattutto di darsi da solo delle rassicurazioni, prima che agli altri.
“Io salgo di sopra”, e Ferruccio si inerpica verso le scale lì vicino, nascoste dietro una porta color mogano.
Ferruccio è un uomo che ha passato i quaranta anni, asciutto e pallido, abbastanza alto da poter guardare negli occhi anche un vichingo. Qualche pelo bianco gli incipria le basette, e un mento a raviolo chiude un volto lungo e pensieroso. Era compagno di classe di Gualtiero, per quello è voluto venire con gli altri due; in quella casa ha passato tanti pomeriggi, aiutando l’amico a tritare il pane del giorno prima, facendo i compiti nel salone o sotto il pergolato verso il bosco, o aiutando il padre dell’altro nelle giornate estive, per passare il tempo prima di raccogliere le castagne. Conosce bene la casa quindi, e sa come è sistemata; sale con sicurezza le due rampe di scale, e si affaccia nell’ingresso addobbato di maschere africane, ricordi del viaggio di nozze dell’amico d’infanzia.
All’accensione della luce vede l’appendiabiti con qualche indumento e cappelli, la specchiera all’ingresso con qualche mazzo di chiavi sopra, la porta per il salone aperta e qualche lama di luce che filtra attraverso le persiane chiuse. Tutto tace, solo il frigorifero ronza piano dalla cucina. La casa è vissuta, due bottiglie di whisky vuote e senza bicchieri attorno campeggiano sul tavolo del salone; c’è aria di chiuso. Qualche piatto sporco, con un po’ di muffa sopra, sta generando nuove forme di vita nel lavabo: decisamente è da diversi giorni che nessuno più tocca nulla, qua dentro. La camera della bambina, rosa e panna col letto a castello, è vuota, due ante dell’armadio sono aperte e lasciano intravedere il nulla all’interno; il letto è sfatto, come pure quello della camera da letto. Anche qua l’armadio è aperto e vuoto da un lato, ma di puù salta all’occhio la piccola distruzione a terra, con cornici rotte, vetri e cocci sparsi un po’ ovunque. Un brivido gli corre su per la schiena, e vede l’amico, come se gli fosse davanti, che in un impeto di rabbia si scaglia contro le poche cose lasciategli dalla moglie, frantuma i ricordi di un periodo felice, strappa le pagine dell’album fotografico di quello che era il giorno più bello della sua vita, e si scioglie in un angolo nella sua disperazione. Si trascina in camera della figlioletta portatagli via, apre l’armadio vuoto, e crolla sul lettino ancora fatto… Ferruccio torna lì, guarda la stanzetta, immagini di orsi gialli e tigri arancioni si rincorrono lungo i muri, e vicino al letto sopraelevato, nella scrivania a misura di bimbo, trova quello che meno avrebbe voluto avere sotto gli occhi. Raccoglie un foglio riconoscendo la scrittura di Gualtiero, scorre le poche righe scritte a mano, e scende dai due compagni al piano di sotto. Un misto di rabbia e tristezza infinita gli stringe la gola con forza, mentre salta i gradini tre per volta, ed arriva davanti agli altri con una faccia stravolta.
“L’ha fatto, s’è ammazzato, coglione” dice piombando dentro la bottega, “ho trovato questo di sopra” e nel mentre apre il foglio piegato in quattro parti. “Ha scritto una lettera alla figlia e l’ha lasciata sulla scrivania, eccola” dice porgendo la mano ad Arturo.
“Diana, amore mio,
Ti prego di perdonarmi. Qualunque cosa ti dicano, ti ho sempre voluto bene.
Sin da quando ti ho tenuto in braccio la prima volta, mio piccolo tesoro rosa e sognante.
Prodotto dei miei desideri, unica cosa che mai ho voluto nella vita.
Sarò sempre con te, per sempre.
Non dimenticarmi, io non ti scorderò mai,
papà”
Arturo scoppia a piangere, urla lunghe e ragliate nel silenzio del mattino riecheggiano nella casa vuota. “Cosa hai fatto! Stupido! Bastardo! Te l’avevo detto che c’eravamo noi se avevi bisogno di qualsiasi cosa! Bastava chiederlo, e ci saremmo bevuti mezza Tomana assieme, ma non t’avrei mai lasciato solo a morire, come un cane lungo la strada! Stronzo!” si alza, dà un pugno al bancone e lo fessura, vecchio legno stagionato. “L’hai trovato? E’ sopra?”
“No, “ fa Ferruccio “sopra è tutto mollato così da giorni, come qua sotto, non c’è nulla.”
“La porta era aperta, no? “ dice Giuliano, tremante nell’aria farinosa “dev’essere uscito senza chiudersi nulla dietro. Sarà andato nel bosco?”
“Aaaahhhrr!” all’ultima frase di Giuliano, Arturo si smuove, parte verso la porta ed esce a passo veloce, mentre gli altri lo seguono.
“Gualtieroooooo!” urla verso il bosco, e la voce si sparge per il veloce salire delle pendici del monte, mentre un gruppo di cornacchie spaventate s’allontanano in uno sbatter d’ali a pochi passi, sui faggi. Continua a ripeterne il nome, mentre sale velocemente su, a perpendicolo rispetto alla casa. Ferruccio e Giuliano lo seguono, e cominciano anche loro a chiamare.
Il bosco è zitto, cinguettante nel mattino di settembre. Uccelli volano poco distante, e fruscii fra le sterpaglie nascondono ricci poco socievoli. Un’aquila grida molto più su. I tre uomini salgono, seguendo un piccolo sentiero che s’inerpica; hanno smesso di gridare, non ne hanno più la forza. Il silenzio irreale contribuisce a dare un tocco di tristezza alla loro scalata, hanno paura di quello che potranno trovarsi davanti, non vogliono credere a quello che si sono lasciati dietro.
Gli alberi fitti nascondono buona parte della vista, mentre la pendenza diminuisce lentamente. Giuliano intravede per primo qualcosa.
“Là sotto, guarda” fa verso Arturo “sembra una scala, sotto quell’albero.”
Una breve corsa, ed ansimando arrivano sotto. Un mucchio di stracci è appeso ad una corda, legata in basso ad un ramo. Immobile nell’aria fresca, Gualtiero sta, attaccato per il collo all’albero, i piedi a neanche un metro da terra. Ha fissato la fune ad quello che restava di un ramo, l’ha lanciata sopra uno più in alto ed ha raggiunto il cappio con la scala, per poi lanciarsi giù, se avesse voluto, avrebbe potuto raggiungere con i piedi la salvezza, ma così non è stato. Arturo crolla in ginocchio, mormorando qualcosa a voce troppo bassa per poter sentire. Ferruccio osserva incredulo, intravede un volto, ma non vuol credere che sia l’amico, o quello che ne resta.
Passa qualche istante, lungo un tempo indefinibile, scena irreale a cui pochi vorrebbero assistere.
E’ Ferruccio a rompere gli indugi.
“Giù, salgo sulla scala e slego la corda. Tu prendilo come scende, così non si fa male” come se ci fosse la possibilità che il vecchio amico potesse ancora soffrire. Sposta di poco la scala, si attorciglia la fune al braccio, e con un temperino che tiene in tasca taglia poco sopra il nodo. Pian piano accompagna il moncherino salendo la scala, lentamente, finché Giuliano non prende per le gambe il corpo, e lentamente lo adagiano a terra, fra le foglie e le fragole, con dolcezza, come se fosse un oggetto in cristallo di rocca.
Ferruccio è abituato a trattare con la morte, ed anche se era un amico, sa fare il suo lavoro, e gli altri si fanno leggermente da parte, come se la sacralità dei gesti dell’altro rendessero una cerimonia anche solo il comporre il corpo. Allenta il nodo dietro il collo, e con mani ferme toglie il cappio da attorno alla testa. Gualtiero ha una camicia arancione, un paio di pantaloni scuri e le scarpe nere lucide. La barba è lunga di qualche giorno, foglie in mezzo ai capelli. E’ nel profondo contento, è morto, il lavoro va avanti, e stravolto dalla morte, quando succede ad una persona vicina è sempre orribile, più del solito. Il volto cinereo, quasi azzurro dalla cianosi, è contratto da una smorfia di tristezza e dolore.
Sempre più contratto, sempre più addolorato.
Gualtiero tossisce, forte, la tosse riempie la vallata. Lunghi rantoli, si piega su un lato e la forza dei colpi di tosse lo scuote in sussulti. Ferruccio fa un salto indietro, e si trova appoggiato all’albero, mentre Giuliano inciampa nella corda e cade supino, scivolando di qualche, metro. Arturo apre gli occhi come due fanali. Il morto appoggia le mani a terra e si solleva lentamente, fino a mettersi seduto, col volto che rapidamente riprende colore, e presto ci si avvede che non è tanto morto. Guarda i tre, si guarda, guarda l’albero, e sorride. Un sorriso da uomo contento, da uomo vivo, sollevato, quasi felice. Si porta le mani al collo, si massaggia la piaga lasciatagli dalla corda.
“Eh! Ciao ragazzi, che bello vedervi. Ho avuto freddo queste notti, sapete? C’era anche un cinghiale…”
Arturo gli salta addosso, lo abbraccia, lo strizza con i tronchi di quercia che ha al posto delle braccia, “Ti ammazzo se lo fai di nuovo! Hai capito? Mai più! Me l’hai fatta fare addosso! Mai! Maaaai!!”
Ferruccio e Giuliano si avvicinano piano e lo toccano, lo stringono, ed una risata isterica e liberatoria parte da Ferruccio. Neanche questo è morto, e d’accordo che era un amico, ma porca vacca nessuno muore? Cinque giorni appeso ed è sano? Evvia è vivo mapporca è vivo, ed i sentimenti contrastanti si mescolano in gola producendo quella che alla fine esce come risata, contagiando gli altri e Gualtiero stesso, ed in breve tutta la valle riecheggia delle risate, sempre più forti; qualcosa è successo, ma di certo non era quello che si aspettavano. In breve lo rimettono in piedi, caricano corda e scala e riprendono la strada della discesa, Arturo che porta l’ex defunto tenendolo col braccio sulla spalla.
“Ora ci spieghi cosa è successo, e ci prometti che non ci provi mai più, intesi?” fa il rosso barbuto.
“E’ un po’ lungo, c’era freddo e la corda faceva male… So solo che mi son venute alcune idee… Mi portate in un bagno, prima? Non cago da quattro giorni, devo avere un blocco di tufo su per il culo!”
E arrivano alla casa, notevolmente più sollevati di quando stavano salendo.
(continua qui)