Ero appena tornato in città dopo un lungo viaggio. Certo, l’averlo trascorso su una diligenza che ondeggiava più di una zattera sul Therazad mi aveva fatto venire il mal di terra dopo aver messo piede al suolo, per cui solo dopo qualche tempo di acquiescenza avevo pensato al da farsi.
Solo come l’ultima aringa nel barile, pensavo a come trascorrere la settimana che avevo davanti prima che il mio contatto mi raggiungesse per il resto della storia, che starò a raccontarvi un’altra volta. Magari davanti ad una pinta di sidro, se sarete così gentili.
La solitudine è una cosa deprecabile, ma lo scacciarla con sola birra e marinai pelosi di contorno non è il massimo. Controllai percio’ sul mio libro nero delle conoscenze per verificare le mie (scarse) amicizie femminili in città.
In due passi raggiunsi la casa di Alethiel, una mezzelfa che da parte umana aveva ereditato soprattutto l’abbondanza. Al mio bussare giunse alla porta un orso peloso che poi si dimostro’ essere un tagliaboschi. Di sicuro non era Alethiel. Feci la scena del venditore di enciclopedie magiche e riuscii a cavarmela, con un contratto per dodici volumi della “Marmotta dalla A alla Z”.
Pensai che investire in una serie di chiamate via sfera poteva essere meglio, soprattutto per l’olfatto.
La successiva fu Agata. Alla mia chiamata non rispose nessuno, o era uscita o era occupata in quel genere di cose per cui un colpo di sfera è solo una seccatura.
Mi ricordavo bene di Maggy, al ritorno da una battuta di caccia sul mio tappeto volante era stata… beh… molto espansiva. Alla mia chiamata rispose sua madre, che mi trattenne per mezza clessidra prima di farmi solo riuscir a pronunciare il mio nome. Seppi che era in tourneé con una compagnia di attori, e che stava tanto bene che per chiunque la vedesse era come “un pugno in un occhio”, la qual cosa mi lasciò perplesso, è difficile avere una buona impressione di chiunque con uno zigomo gonfio. Mi disse che rappresentavano un dramma dove dodici vergini sacerdotesse erano rapite dagli orchi, e Maggy era proprio quella che più delle altre pareva davvero una vergine. Ripensando al tappeto, se lei era una vergine, Galadriel era seconda base dei Goblins di Waterdeep.
Mentre la madre continuava a gracidare, chiusi la sfera.
L’ultima possibilità era Celia, una ragazza un po’ piatta ma con una discreta balconata.
Mi ricordai anche che era la tipa intellettuale studiosa, che anche per andare alla latrina non si staccava mai dal suo libro di letteratura tardo-empatica. Lasciai stare.
Andai a cenare al Granchio Verde, il cameriere mi riconobbe e mi mise al tavolo vicino alla cucina. Dopo la terza birra mi accorsi di una fanciulla dall’altro lato della sala, da sola. Feci sfoggio del mio miglior set di sguardi, sornione, aperto, gioviale, bramoso… al quinto una lisca di pesce mi ando’ di traverso, e il suddetto cameriere impiegò parecchi colpi alla mia schiena nel tentativo di debellare l’infausta vestigia interna del pasto. Dopo molti colpi, di tosse e di cameriere, e lacrime, chiesi il conto.
Passai accanto al tavolo della fanciulla, e con viva contrarietà, mi accorsi che i miei sorrisi erano stati sprecati, essendo ella una vecchia baffuta signora. Le birre offrono uno spettacolo distorto della realtà, non si dovrebbe bere prima di occhieggiare.
Mi addormentai sognando una ragazza di uno spettacolo con gli orchi che leggeva letteratura tardo-empatica a un giovane cameriere del Granchio Verde, mentre una vecchia signora coi baffi ballava per le strade con un taglialegna che si chiamava Alethiel.
Il giorno successivo mi riebbi un po’, e mi accorsi che il mio guardaroba avrebbe avuto bisogno di una sistemata radicale. Contattai un mio amico sarto, che oltre a pomparmi via dalle tasche una discreta quantità di pezzi d’oro notò la strana luce nei miei occhi.
“Tu hai bisogno di compagnia.”
“Direi, non so come ammazzare il tempo.”
“Guarda, tra le mie indossatrici c’é una ragazza veramente a posto. Certo, se vuoi fare conversazione ti metto in comunicazione con un professore di magia, ma ti assicuro che per una serata va benissimo.”
Mi feci dare il suo indirizzo, prenotai per due in una taverna molto à la page, raccattai due biglietti per uno spettacolo teatrale (casualmente, un dramma con vergini rapite dagli orchi) e con un mazzo di fiori presi in prestito ad un balcone mi recai da lei. Rimasi un po’ perplesso e cominciai a nutrire qualche dubbio sulla bontà di questo incontro al buio.
La fanciulla aveva un nonsoché di strano, e me ne resi realmente conto non appena mi fu accanto. La sua acconciatura, composta da fili di argento intessuti con lapislazzuli, mi superava di una testa buona. Pensai che con un fulmine sull’impalcatura avrei potuto chiamare direttamente Elminster risparmiando sulla tariffa Intersfera.
Al Cigno Dorato mi resi conto di una cosa strana, cioè che con l’illuminazione sfarzosa del locale la mia compagna emanava strani riflessi ovunque, riflessi che dipartivano dalla sua incredibile pettinatura. Gli sguardi degli altri clienti furono calamitati dalla nostra entrata, e per un poco temetti che scoppiassero in un applauso.
Entrammo al teatro poco prima che iniziasse lo spettacolo. Mentre discendevamo lungo il corridoio verso le poltrone in prima fila, il silenzio calò sugli astanti. Le donne smisero di lasciar cadere i guanti, i loro cavalieri di raccoglierli, e tutti gli occhi si
puntarono su quella coppia invero male assortita che andava a prendere posto. Lei sembrava un galeone con tutte le vele spiegate al vento, e dietro trotterellava, a testa china, una sbigottita figurina che cercava disperatamente di non pestarle il vestito. A causa dell’acconciatura, poi, sembrava anche più alta quando stava seduta di quando stava in piedi, ed ero convinto che nessuno nelle cinque file dietro di lei avrebbe visto molto della rappresentazione.
Col procedere dell’azione, l’atmosfera in sala cambiò, l’allegria e il chiacchiericcio che precedono di solito l’inizio del primo atto erano scomparsi. Il pubblico era silenzioso e teso.
Improvvisamente, con mio sommo orrore, quella vuota, splendida carcassa che sedeva al mio fianco scoppio’ in una risata fragorosa attirando su di se’ l’attenzione di tutti. Tentai di sprofondarmi ancora di più nella poltrona, ma oramai avevo quasi raggiunto il suolo. Un’altra quindicina di passi e mi sarei ritrovato nel golfo mistico.
Le affondai un gomito nelle costole.
“Cara, stà zitta. Questo è un dramma, e le tue risate disturbano il pubblico.”
“UN DRAMMA! Ma se è una delle cose più divertenti che abbia mai visto!”
“Lo sarà per te, ma disturbi tutti gli altri.”
Lei scoppio’ a ridere.
“Ma vuoi scherzare! Pensi che sia una stupida, ma io capisco subito quando uno spettacolo è divertente!”
Forse avrei potuto scappare di nascosto, piantandola lì, ma avendola portata io in teatro, per rispetto verso gli altri spettatori, mi ritenevo in dovere di trascinarla via.
“Tesoro, non mi sento bene….ho mal di stomaco e sto per vomitare, credo le ostriche, quelle che sembravano salsa rosa, sì, erano ostriche, di qualche anno fa ma ostriche. Non ho mai vomitato in un teatro, e poiché questo tappeto mi sembra nuovo, penso mi convenga uscire.”
A questo punto arrivo’ correndo il capo maschera, che mi chiese se la mia amica si sentisse male, che sembrava in preda ad un attacco isterico, e che poteva accompagnarla in direzione e chiamare un medico.
“Oh, no, non è niente di serio. E’ una cosa piuttosto intima, ma poiché lei è il capo maschera, credo di potermi confidare. Vede, al ristorante ha ordinato un piatto di carpaccio di sgurflaatz, ma essendo crudo le si muove nelle budella provocandole solletico e inevitabili attacchi di riso. La portero’ io stesso da un cerusico.”
“La direzione mi manda comunque a dire che disturba il pubblico.”
Allora le afferrai un braccio, e adducendo il mio precario stato di salute la trascinai via recalcitrante, promettendole un altro invito a teatro quando mi fossi rimesso in sesto.
Son sicuro che quando Mornagin sintetizzo’ per la prima volta l’acqua di roccia nanica (distillare sarebbe un eufemismo, non si puo’ chiamare distillato una cosa che va posta in fiaschette di piombo per evitare che sciolga il contenitore) non fu più felice di quanto lo fui io allorché, uscendo da lì, vidi un calesse vuoto sul marciapiede.
“EUREKA!”
“Che vuol dire Eureka?”
“Niente, è il nome del cocchiere. Isidoro Eureka. L’ho preso altre volte.”
Detto cio’, posai sulla carrozza la mia bella, che ormai aveva l’impalcatura un po’ sbilenca a causa del tetto basso. Sbattei la porta, diedi al cocchiere un pezzo d’oro e dissi
“Eureka, porta la signora dovunque voglia andare”.
Dopo tutto, la vuota stanza della locanda non mi appariva più tanto inospitale. Lanciai un bacio al calesse che si allontanava lentamente, e scomparvi correndo nella direzione opposta. Al Sicuro.

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